Il dibattito

Intervista allo studioso di lingua italiana Pietro Gambino sull’uso del simbolo “Schwa”, la “ə” che dovrebbe unire…

Il giovane docente, promotore del progetto Italiano Avanzato, spiega le ragioni linguistiche per le quali l'uso della vocale neutra ə alimenta contraddizioni e non risolve le discriminazioni che vorrebbe combattere.

pietro gambino
Pietro Gambino

Molti lo pensano e tanti lo dicono da decenni. L’italiano è una lingua maschilista perché, ad esempio, se si parla di gruppi misti di persone, poniamo di uno studente e una studentessa, il plurale è maschile: studenti. Negli ultimi anni, poi, a chi combatte la battaglia per un italiano più partitario tra i sessi, si sono aggiunte le ragioni delle persone non binarie, cioè coloro che non si sentono né uomini né donne, che contestano alla nostra lingua di avere come generi solo il maschile e il femminile.

La somma di tutto questo, nel tentativo di rendere l’italiano più inclusivo e meno discriminatorio, ha prodotto piuttosto recentemente lo Schwa. Che cos’è? In buona sostanza una terminazione neutra, al posto del maschile e del femminile, una vocale che si pronuncia come la “a” nella parola inglese “about” e si scrive come una “e” rovesciata: ə.

UNA QUESTIONE APERTA

Tutto risolto, allora, a parte la ovvia difficoltà ad adeguarsi ad un cambiamento piuttosto radicale nel nostro modo di scrivere e, soprattutto, di parlare? A quanto pare, sembrerebbe proprio di no. Anzi, al netto delle motivazioni alla base di questa innovazione, le controindicazioni e le contraddizioni dello Schwa, da un punto di vista prettamente linguistico, ma anche più ampiamente sociale, non mancano.

pietro gambino

Almeno questa è l’opinione di Pietro Gambino, 31 anni, insegnante di lingua italiana per stranieri e autore del romanzo “Le Vite Immobili”. Che da casa sua in Brianza porta avanti il progetto “Italiano Avanzato”: classici corsi di lingua, contenuti social, con oltre 14mila follower su Instagram, fino alla recente creazione di un podcast e alla produzione di video su Youtube. Il tutto per promuovere l’italiano su più fronti.

Nell’intervista ad MBNews Gambino, che ha anche scritto per un certo peridio per MBNews, si è laureato in Comunicazione Interculturale alla Bicocca di Milano e ha in tasca un master per l’insegnamento della lingua e cultura italiana a stranieri alla Ca’ Foscari di Venezia, afferma che non insegnerebbe mai lo Schwa ai suoi studenti. Anche perché sostiene che la lotta alle discriminazioni si fa nel campo dei diritti e dell’eguaglianza sociale e giuridica, non in quello della grammatica e della morfologia.

Non sono le parole, ma le intenzioni dietro le parole, il vero problema”, secondo Gambino, che a Milano ha lavorato per Accademia di Italiano, Spaziolingua e Design Your Language, è il punto da cui partire.

L’INTERVISTA

Pietro Gambino, una domanda come premessa. Perché questa attenzione per lo Schwa e per il linguaggio inclusivo?

Mi sto interessando a questa tematica perché da una parte amo la scrittura e sono sempre alla ricerca di modi nuovi per esprimermi, e dall’altra, essendo io un insegnante di italiano, cerco sempre di tenermi aggiornato sui dibattiti più attuali circa la lingua che insegno.

Lo Schwa, questa vocale neutra che si pronuncia come la “a” nella parola inglese “about” e si scrive come una “e” rovesciata: ə, è sicuramente una delle questioni linguistiche più accese. Ma da dove nasce?

Lo Schwa ha un proposito chiaro: utilizzarlo come terminazione neutra al posto del maschile e del femminile per rendere l’italiano meno discriminatorio e più inclusivo. Ad avanzare la proposta è stato l’attivista Luca Boschetto nel 2015, ma a donare dimensioni nazionali al dibattito è stato il diverbio tra Mattia Feltri e Vera Gheno, quest’ultima sociolinguista divenuta quasi simbolo della battaglia.

Al diverbio sono seguiti infiniti articoli e tweet di intellettuali e opinionisti, quindi la presa di posizione contraria da parte dell’Accademia della Crusca, e infine la recentissima petizione contro lo Schwa sostenuta da una serie di firme importanti, tra cui il professor Alessandro Barbero.

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Qual è la tua opinione sullo Schwa da professionista dell’italiano?

Mi sono da subito chiesto se ci fosse abbastanza fondamento nello Schwa da poterlo insegnare ai miei studenti. La risposta è stata no. Io non contesto minimamente le ragioni che stanno alla base della proposta dello Schwa: combattere le discriminazioni è giusto, sano ed importante. Le mie obiezioni sono invece di carattere pratico e linguistico.

Quali sono le tue obiezioni?

Essenzialmente tre. La prima è legata alla morfologia: se dico “amicə”, siete in grado di capire se sto parlando di un singolo o di più persone? E poi, facendo finta che sia plurale, perché dire “amicə” invece di “amichə”? Una forma farà comunque pensare al maschile, l’altra al femminile, inutile negarlo. “Glə amicə o lə amicə?”

C’è, poi, il punto che il linguaggio inclusivo, paradossalmente, discrimina chi non è in grado di usarlo o capirlo: anziani, dislessici, ipovedenti, per esempio, e più in generale persone che vorrebbero applicare correttamente la grammatica senza darle obbligatoriamente una connotazione sessuale. Rischia perciò di diventare un gergo, cioè una lingua utilizzata da pochi all’interno di una cerchia ristretta, escludendo tutti gli altri.

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Quale altra contestazione linguistica fai allo Schwa?

I nomi propri, un aspetto che non è stato affrontato in tutto questo grande dibattito. Lo Schwa è stato proposto affinché persone non binarie possano avere un suffisso grammaticale con cui identificarsi in parole di uso comune e, in generale, per spogliare il linguaggio da questa connotazione sessuale.

Come comportarci però con i nomi propri? Insomma, se dico che Lucia è unə poliziottə, il nome Lucia non è forse comunemente accettato come femminile? Questa è secondo me un’altra delle tante contraddizioni di questa battaglia e non posso insegnarlo ai miei studenti, se il loro obiettivo è comunicare in modo chiaro ed efficace.

UNA SOLUZIONE

Se lo Schwa è da “bocciare” dal punto di vista del linguaggio inclusivo, come renderesti l’italiano più aggiornato ai tempi attuali che spesso sembrano molto impegnati, a volte ipocritamente, nel tentativo di dare un senso alle proprie complessità, anche dal punto di vista del genere sessuale di appartenenza?

Cercherei di portare la lotta alle discriminazioni su un diverso campo di battaglia: non la grammatica, ma i diritti, non la morfologia, ma l’eguaglianza sociale e giuridica. La lingua è uno strumento, come un coltello: c’è chi lo usa in modo giusto e chi per fare del male. Non è cambiando la forma del coltello che risolveremo i problemi, perché i malintenzionati troveranno altri modi per ferire.

Inoltre c’è un altro pericolo: che lo Schwa venga utilizzato solo per fini di marketing da brand o persone che vogliono mostrare ai propri clienti/sostenitori di essere aperti, inclusivi e moderni, salvo poi, nella vita reale, continuare a discriminare in base a sesso, colore della pelle, età, e molto altro.

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Pietro Gambino

Qual è, allora, la chiave giusta per arrivare all’inclusività?

Bisogna lavorare sulla sensibilizzazione. Battaglie come lo Schwa, invece, radicalizzano le persone, che si dividono in fazioni estreme, pro e contro e non dialogano più. Personalmente il mio obiettivo primario, in questo momento, è sfatare due miti: uno per cui chi è contro lo Schwa sia di conseguenza a favore delle discriminazioni. Questo è un sillogismo privo di logica.

L’altro secondo il quale i generi grammaticali siano la stessa cosa dei generi sessuali. Risulta evidente il fatto che, se io dico che sono una “persona”, utilizzando una parola femminile, questo non mi rende automaticamente una donna. Non sono le parole, ma le intenzioni dietro le parole, il vero problema.

Allenare le persone a una mentalità più aperta e flessibile è l’unica soluzione verosimile per un mondo migliore. Il linguaggio non cambia la società, ma al contrario, se riusciamo a migliorare la società nella pratica, vedrete che il linguaggio cambierà di conseguenza.

Nel nostro territorio quali sono le iniziative che sono state messe in campo o stanno per esserlo sul fronte del linguaggio inclusivo?

Nel corso degli ultimi anni sono state tentate varie iniziative. Per esempio Elena Centemero, attuale membro del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione e ex dirigente dell’Istituto di Istruzione Superiore Ezio Vanoni di Vimercate, ha pubblicamente affermato di utilizzare attivamente verso gli studenti e in generale verso il pubblico un linguaggio inclusivo, dicendo per esempio: studentesse e studenti, invece del solo “studenti”.

La regione Lombardia è invece incespicata in una gaffe proponendo nelle sue storie su Instagram un’iniziativa nel cui testo la parola “artista” veniva resa inclusiva con l’asterisco, “artist*”, dimenticandosi che quel termine è già “unisex” e include già maschile e femminile

Perlopiù si sentono solo opinioni gridate sui social e argomentate a ritmo di like. La mia speranza è che il dibattito si sposti sull’educazione, invece che arenarsi sulla linguistica.

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