Lettera al direttore

Lo sfogo delle assistenti sociali: «Siamo stufe». Lettera al giornale

Hanno deciso di far sentire la loro voce, rispettando i vincoli che la professione impone.

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Hanno deciso di far sentire la loro voce, rispettando i vincoli che la professione impone. La categoria degli assistenti sociali, al centro delle polemiche in Brianza e in particolare a Lissone dopo il servizio delle Iene e il caso Linda Greco, necessita, secondo 5 professioniste operanti nel territorio di Monza e Brianza e Bergamo, di alcune precisazioni e chiarimenti perché «siamo stufe di essere dipinte come le ruba bambini». Lo fanno attraverso una lettera ai giornali, che riportiamo di seguito.

«Da un paio di settimane assistiamo a un attacco mediatico verso la nostra figura professionale di assistente sociale. Gli ultimi ad accanirsi contro di noi sono quelli de Le Iene. Abbracciare una sola versione dei fatti, non aprendosi a dubbi e perplessità, crediamo sia una forma di giornalismo che non approfondisce la notizia e non da ascolto a voci diverse. I loro servizi contengono inoltre diverse inesattezze inerenti il nostro ruolo frutto di una superficialità di informazione. Gli assistenti sociali che “rubano i bambini” non sono certo una loro scoperta. La nostra figura da anni è accompagnata da pregiudizi. Dopo accessi ai nostri Uffici di persone che minacciavano di chiamare “Striscia la Notizia”, “la D’URsocheleimirisolveiproblemi”, ora sappiamo che i nuovi paladini saranno i “men in black”, in attesa dei prossimi che li sostituiranno. Siamo concordi nel credere che un minore abbia diritto a una famiglia, ma non che sia un diritto “a tutti i costi”, laddove vengano meno i presupposti di protezione per il minore stesso. L’allontanamento, a dispetto di ciò che avete voluto affermare, resta l’ultima ratio. Prima di agire in tal senso vengono messi in atto interventi a tutela del minore, di monitoraggio e di sostegno alla genitorialità, ma quando tutto questo non è abbastanza e la situazione appare pregiudizievole per il minore, occorre agire, nel pieno rispetto del mandato di un Tribunale specificamente dedicato a tutelare i minori e i loro legami familiari. Il Tribunale prescrive o avvalla interventi estremi solo nel caso in cui la famiglia di origine, che sempre più ha la possibilità di confrontarsi in modo diretto con i giudici stessi, viene valutata come una risorsa non più fruibile. Il collocamento comunitario non è volto alla separazione genitori/figli senza alcuna progettualità. L’inserimento del minore in struttura deve essere un’occasione di riprogettazione, cura del sé e lavoro sulla/con la famiglia e sul/con il minore.

Siamo consci che il distacco del minore dalla famiglia d’origine comporti uno strappo emotivo e una forte sofferenza.

Non vi è leggerezza in quest’azione, ma eviteremo di soffermarci sul nostro sentito, capiamo che potrebbe destabilizzare la scoperta che, anche noi, abbiamo sentimenti.

Allora parliamo di cose concrete. In un momento di grave crisi economica e del welfare, garantiamo che nessun Comune preme per l’inserimento di un minore in comunità. Le rette giornaliere hanno costi tutt’altro che irrisori e, prima di agire in tal senso, convinti da elementi oggettivi di grave pregiudizio e malessere per il minore, dobbiamo superare lo scoglio politico, in un’estenuante mediazione tra ciò che è meglio per il minore e ciò che è spesa, costo. Questo per permettere di comprendere che non è un’azione volta al conseguimento di un vantaggio, pertanto, se non vi è un ritorno economico, non vi è un Comune compiacente e propenso all’oneroso esborso di soldi pubblici, la sola cattiveria e mancanza di scrupoli di un assistente sociale non è sufficiente a supportare certe tesi. Il nostro codice deontologico non ci consente di violare la privacy dei nostri assistiti, nemmeno con la loro autorizzazione. La mancata possibilità di controbattere punto su punto alle accuse che ci vengono rivolte, ci rende soggetti vulnerabili, in balia di disinformazione.

Chissà, forse anche Voi confondete il nostro ruolo. Non siamo operatori della buona volontà, spiriti caritatevoli cresciuti nell’illusione di salvare il mondo. Siamo Professionisti, lavoratori responsabili e coscienziosi che fondono le proprie competenze sugli studi effettuati per il conseguimento della laurea, della formazione (obbligatoria) continua che ci consente di acquisire e migliorare le conoscenze, iscritti a un albo, che svolgiamo una professione su un mandato dell’Autorità Giudiziaria, nell’ambito di un contesto che è il Servizio in cui operiamo. Cavalcare l’onda dell’assistente sociale cattivo, che in modo arbitrario toglie i figli ai genitori, è una facile ricerca di larghi consensi. Vorremmo che Vi soffermaste sul fatto che sempre più Servizi Tutela Minori si dotano di personale di sicurezza, a fronte di aggressioni fisiche subite da molti nostri colleghi, minacce, autovetture personali danneggiate da atti vandalici fuori dall’ufficio, appostamenti sotto le abitazioni personali. Servizi come quelli de Le Iene non fanno altro che alimentare un clima di ostilità e di svalutazione. Ora rimaniamo in attesa del prossimo servizio, quello che magari ci accuserà di non aver agito su una famiglia e che, a causa del disinteresse mostrato dall’Operatore, è stata danneggiata. Da come usualmente veniamo descritti da certa stampa e certa informazione televisiva, sembrerebbe che l’assistente sociale si muova su un equilibrio contrapposto tra un ingiustificato eccesso di zelo e un menefreghismo assoluto. Forse, la prossima volta che ci troveremo in difficoltà con un nostro assistito, saremo noi a chiamare la tv e i giornali e a demandar loro la risoluzione del disagio, augurandoci che sappiano, anche in quel caso, adottare la semplificazione e la banalizzazione che ci vengono attribuite».

Al telefono, una delle assistenti sociali conclude: «Non entriamo nello specifico del caso di Lissone, non conosciamo le colleghe, non le vogliamo difendere a tutti i costi, nessuna di noi è coinvolta direttamente. Ci preme soltanto dire che troppo spesso siamo oggetto di un tiro al bersaglio che è figlio della non cultura su ciò che realmente facciamo e possiamo fare».

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