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Marzo decisivo per il futuro di Astaldi mentre il governo studia come far ripartire i cantieri

L’ipotesi di replicare il metodo Genova per sbloccare lavori da 55 miliardi di euro.

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Con un mix fatto di rapidità, efficienza e assenza di vincoli burocratici, la ricostruzione del ponte di Genova sta dimostrando al mondo che l’Italia può fare le cose presto e bene. Un metodo che potrebbe essere replicato, se è vero che il governo sta pensando di adattarlo a una lista di altre opere che potrebbero rimettere in moto cantieri che valgono 55 miliardi di euro. Sarebbe una bella spinta per un settore che ha molto sofferto negli ultimi anni e che ha portato importanti società, come Astaldi, sull’orlo del collasso, come ben sanno i creditori di Astaldi, che entro fine mese dovranno approvare il piano che prevede il concordato preventivo in continuità e poi l’ingresso nel capitale da parte di Salini Impregilo che, con il marchio WeBuild, sta cercando di dare una svolta al settore con la creazione di un maxi polo.

Sono stati diversi i motivi che alla fine del 2018 hanno spinto Astaldi a un passo dal fallimento: piegata da un difficile quadro macroeconomico, ma anche dalla dilatazione dei tempi di pagamento da parte degli enti pubblici, dal mancato incasso dei crediti, e più in generale dallo stallo che ha colpito l’intero sistema delle infrastrutture in Italia.

Il piano di salvataggio passa attraverso Progetto Italia, una delicata operazione industriale e finanziaria che coinvolge tutto il sistema-Paese. Progetto Italia vuole creare attorno a Salini –leader del settore, che in questi anni ha evitato di impantanarsi nella palude italiana lavorando soprattutto all’estero – un polo delle costruzioni sotto il marchio WeBuild con solide basi finanziarie, un cospicuo portafoglio ordini, ottime competenze professionali e dimensioni che consentano di operare sul mercato italiano, resistendo a quelle difficoltà strutturali e congiunturali che hanno messo in crisi Astaldi, e allo stesso tempo su quello internazionale, dove potrà competere con i più grandi gruppi esteri.

Questo piano è in pieno svolgimento. Salini ha già assorbito alcuni costruttori e punta – con successive acquisizioni – a superare i 10 miliardi di fatturato. Una crescita che ha avuto bisogno di un aumento di capitale da 600 milioni che ha portato le principali istituzioni finanziarie del Paese a diventarne azioniste. Cassa depositi e prestiti, Intesa Sanpaolo, Unicredit e Banco Bpm hanno poco meno di un terzo del capitale e affiancano la famiglia Salini, socio di maggioranza con oltre il 40%.
 
Per quanto riguarda invece gli obbligazionisti Astaldi, potranno convertire i crediti in azioni e diventare soci della nuova Astaldi, a fianco della Salini che ne acquisirebbe il 65%.
Il concordato è già stato approvato da una parte di loro. Il 10 marzo sono chiamati a dire la loro i detentori del prestito obbligazionario Usa da 750 milioni. Il voto probabilmente sarà contrario ma non potrà fermare l’operazione di salvataggio: il 26 marzo infatti si terrà l’assemblea di tutti i creditori, di cui gli obbligazionisti sono solo una piccola parte: le banche, che detengono il 56% del debito, non hanno certo motivo di bocciarla; a loro si aggiunge poi il 4% degli obbligazionisti che hanno già votato a favore.

Se non sarà così, non restano che due scenari. Il primo è rappresentato dall’amministrazione straordinaria, con la gestione affidata a commissari: una scelta che rischia di rallentare fortemente l’operatività dell’azienda, con ricadute sulla prosecuzione delle commesse. Il secondo è invece il fallimento. A quel punto Astaldi verrà definitivamente cancellata.

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