Cultura

Combine paintings e Bachi da setola: un nuovo modo di fare scultura

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Già nel primo Novecento l’idea di scultura era profondamente cambiata rispetto al passato, soprattutto dopo che un artista come Rodin aveva posto le basi per superarne la definizione e l’estetica classica. Costantin Brancusi fece addirittura causa agli Stati Uniti d’America quando, nel 1926, un suo pezzo, Uccello nello spazio – una sorta di lamina riflettente – venne scambiata per ferraglia e sottoposta al dazio delle normali merci (per ben 240 dollari dell’epoca). Alla fine vinse lui, e il tribunale riconobbe a quel pezzo di ottone una sua artisticità, tale da meritare il duty free, l’esenzione fiscale, come era stabilito per le opere d’arte: così nasceva di fatto la scultura astratta moderna.

Robert Rauschenberg: Canyon (1959)

Robert Rauschenberg: Canyon (1959)

Nel Dopoguerra, mentre Giacometti proseguiva su una linea tutto sommato legata alla tradizione, pur nell’assottigliarsi e disgregarsi della materia, altri artisti si muovevano su fronti completamente diversi. Si pensi, per esempio, al mitico Robert Rauschenberg – bello e maledetto, assurto a star mondiale nella Biennale di Venezia del 1964 come lo racconta Calvin Tomkins nella sua biografia – che a metà tra pop art ed espressionismo astratto s’inventò i combine paintings, le pitture combinate in cui mescolava la pittura con gli oggetti e la materia della quotidianità. Tanto per capirci, una sua scultura del 1955-59 dal titolo Monogram si compone di pittura a olio su carta, tessuto, carta stampata, riproduzione a stampa, metallo, legno, tacco da scarpa in gomma e palla da tennis su capra d’angora impagliata e pneumatico su piattaforma in legno, montato su quattro ruote. Non c’è che dire.

Pino Pascali: la vedova blu (1968)

Pino Pascali: la vedova blu (1968)

Tanto fece l’americano Rauschenberg, che pochi anni dopo non sorprende più il lavoro di un altro grande, l’italianissimo Pino Pascali: in pieno neodada Pascali eseguiva collage a tecnica mista su zinco, bitume su lamiera, lamiera inchiodata su faesite o gesso e catrame, oppure negli stupendi Bachi da setola preferiva i peluche e le pagliette di ferro, o nel metro cubo di terra si arrangiava con il materiale più povero. Pascali, una meteora – come lo descrive Marco Tonelli – nato nel 1935 e morto nel 1968, è capace in solo un lustro di ottenere consenso unanime, in quanto a genio e originalità, per le sue opere plastiche, un centinaio in tutto e oggi veri totem per i collezionisti più attenti.

Pascali e Rauschenberg, differenti ma simili per la capacità di stupire e interpretare le temperie di un mondo che andava cambiando tra industrializzazione e contestazione. Il primo, che dietro un aspetto ludico, leggero e divertito, nascose una poetica meno ingenua di quanto i critici abbiano spesso sostenuto; il secondo, a cui piaceva giocare con i simboli e riti dell’art system. Una volta, leggendo una ingenerosa critica a una sua mostra a Firenze, in cui il recensore concludeva la stroncatura suggerendogli di gettare le “opere” in Arno, Rauschenberg seguì il consiglio e prima di ripartire per gli States raccolse in un fagotto i pezzi invenduti gettandoli da un ponte nell’acqua alta, dove ancora giacciono.

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