Donne, che impresa!

Quando il medico è donna: intervista a Susanna Radaelli

La passione per il proprio lavoro, ma anche la difficoltà nel conciliare famiglia e carriera: Susanna Radaelli si racconta.

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Dalla ricerca all’ospedale, dal laboratorio allo studio del medico di base. La genetista Susanna Radaelli può davvero dire di avere esplorato a fondo il mondo della medicina. La avevamo intervistata a fine 2019, quando dopo 25 anni in ospedale aveva cominciato a esercitare come medico di base a Seveso. Oggi noi di MBNews siamo tornati a ricontattarla per la rubrica “Donne, che impresa!“, per fare luce sull’esperienza femminile in ambito medico.

Una passione che diventa un lavoro

“All’inizio mi affascinava molto la figura dei ricercatori, tanto che avevo pensato di iscrivermi a biologia, ma poi ho capito che la medicina mi avrebbe aperto più porte – racconta Susanna Radaelli -. Mi sono laureata in Chirurgia clinica, poi mi sono iscritta alla scuola di specialità in Genetica: era il 1990, il corso a Milano c’era da appena due anni. Scoprii un mondo che mi piaceva molto: era un anche un periodo stimolante, uscivano i primi metodi di sequenziamento, si parlava di genoma umano. Rimasi in dipartimento 5 anni, poi la scelta era tra restare per un dottorato di ricerca, mi si passi il termine “da fame”… o cercare un posto da ospedale. All’epoca non c’erano concorsi per genetisti, ma trovai lavoro al servizio trasfusionale e in Immunologia, formandomi anche in Immunoematologia, Virologia, e nei laboratori di Ematologia e Coagulazione“.

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Nel 2013, dopo aver vinto un concorso e accettato un posto a Como, Radaelli apre un laboratorio di genetica dell’adulto, dove fino al 2019 ha trattato soprattutto trombofilia, infertilità e genetica di base. Poi le è venuta voglia di cambiare ancora. “La mia creatura ormai poteva andare avanti da sola – commenta -. Volevo prendermi più tempo per me e conoscere il mondo della medicina di base“. Arriva così a Seveso, nello studio di via Longoni che condivide con i medici Donati e Cappelli, con l’intenzione di affiancare all’attività di medicina di base anche  le consulenze legate all’infertilità di coppia e ai test prenatali. Nessuno allora poteva prevederlo, ma era appena sei mesi prima che la pandemia sconvolgesse il mondo.

Il Covid visto dall’ambulatorio

“Con il Covid noi medici di base abbiamo patito tutti, soprattutto la prima ondata, affrontata in prima linea senza mezzi e senza conoscenze. L’Italia è stata la nazione con più morti tra i medici: 350, di cui 300 di base. Eravamo impreparati” ammette Radaelli. Lei stessa, pur abituata a seguire tutte le norme di sicurezza per aver lavorato per anni sull’Hiv, racconta di essersi contagiata nel corso della seconda ondata.

“Non c’erano protocolli: ci siamo dovuti inventare una terapia sulla base di voci. Anche chi stava sopra di noi è stato travolto da una situazione imprevedibile“.

Che differenza c’è tra il lavoro in ospedale e quello della medicina di base?

“Con Donati e Cappelli mi trovo bene, ma in generale quando si lavora come medico di base non c’è un vero rapporto tra i colleghi. In ospedale invece si lavora di più in équipe, e di fronte alle emergenze si fa gruppo. Il rapporto con Ats è verticale: ci arrivano delle direttive, ma non possiamo mai discutere priorità e necessità. Ora stanno creando degli ospedali di comunità, spero che si crei un’équipe anche tra i medici di base”.

La mancanza di relazione, aggravatasi con il Covid, dimostra secondo Radaelli il fallimento della legge 23: “Doveva esserci un collegamento tra ospedale e territorio: nella realtà non esiste. Quando ho un’urgenza chiamo i miei colleghi personalmente e gli chiedo un piacere, altrimenti i miei pazienti finirebbero al pronto soccorso”.

Ecco che quindi lavorare in team diventa una sicurezza in più: “Appartenere a una cooperativa di medici di base, il Consulto Formativo Brianza, ci ha aiutato molto, per esempio in attività come il teleconsulto, o per la possibilità di mandare un medico a domicilio a fare ecografie polmonari. Durante la fase acuta della pandemia questo ci ha permesso di capire chi far restare a casa e chi mandare in ospedale”.

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Quando influisce il genere del medico nel suo approccio al paziente?

Nella specialistica gli uomini tendono al carrierismo, noi invece ad avere un ottimo rapporto con il paziente. Questo, e parlo per me, sulla medicina del territorio si traduce spesso dal fatto che vengo travolta dall’empatia: d’altra parte le persone al “medico di famiglia” vogliono raccontarsi, e io rispetto a un collega uomo forse li ascolto un po’ di più”.

Ma non è tutto rose e fiori: “Quando sei donna e a inizio carriera il paziente ti guarda sempre con diffidenza, cosa che a un uomo non succede. Quante volte in ospedale mi sono sentita dire “Buongiorno signorina” mentre il mio collega era “dottore”! Ora, invece, percepisco più rispetto, perché pensano che abbia più esperienza”.

Dal punto di vista dell’ambito di specializzazione, invece, secondo Radaelli ci sono delle preferenze naturali: “L’ambiente della genetica è in mano alle donne, anche se ci sono alcuni capi uomini. I  chirurghi invece sono quasi sempre uomini: è un mestiere faticoso, prima di tutto fisicamente, e secondo me molto adatto alla mentalità maschile, perché pratico, operativo”.

Ha trovato difficile conciliare lavoro e vita privata?

“Io ho fatto una cosa che di solito non si fa: la mia prima figlia è nata quando ero all’università, la seconda durante la scuola di specialità. Anche se lavoravo già, ero ancora nella fase di studio, quindi è stato più semplice conciliare le cose, e ho potuto contare sull’aiuto di mia mamma e mia zia. Però i primi anni sono stati durissimi, non ho fatto un briciolo di carriera. Gli uomini ti dicono sempre “Tu hai i bambini piccoli, vai via presto”: è vero, non ho mai voluto tornare alle 20, facevo il mio orario e le ore in più che mi venivano richieste, e in compenso mi venivano affidati solo ruoli marginali. I padri invece sono autorizzati a occuparsi solo della carriera“.

“Adesso le mie figlie sono grandi e in un certo senso mi vendico: sono ancora relativamente giovane e ho ancora tutto il tempo che voglio. Sono contenta, nel mio piccolo ho fatto delle cose che mi piacevano e ne sono soddisfatta, probabilmente non avrei comunque fatto carriera. Però è un problema che c’è ancora: quando le mie colleghe restano incinte si passa da quella che viene a lavorare con il pancione, e magari si mette a rischio perché vuole fare carriera… a quella che appena fa il test non la vedi più”.

CHI È SUSANNA RADAELLI

Laureata con il massimo dei voti in Medicina e Chirurgia all’Università degli Studi di Milano, nel 1994 Susanna Radaelli si è specializzata in Genetica medica con indirizzo medico nella stessa università, dove ha lavorato anche come ricercatrice.

Già consulente presso l’ospedale Buzzi di Milano, dal 1995 al 2010 ha lavorato presso il servizio immunotrasfusionale dell’azienda ospedaliera San Gerardo di Monza. Negli ultimi otto anni ha lavorato presso l’ASST lariana di Como come genetista nell’area della PMA e in oncologia genetica. Attualmente è Consulente LP in Genetica Medica presso Impact Lab e MMG presso ATS Monza Brianza.

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