Economia

Indennizzo licenziamenti illegittimi, Cgil MB: “Consulta dice no ad anzianità criterio esclusivo”

La Corte Costituzionale, in una recentissima sentenza, afferma che per stabilire l'indennità risarcitoria bisogna considerare anche il numero di dipendenti e le dimensioni dell'attività economica.

lavoro-ufficio

Le conseguenze del Covid-19 sul mercato del lavoro sono attualmente anestetizzate dagli ammortizzatori sociali e dal blocco dei licenziamenti, fissato, salvo proroghe, al 17 agosto. Ma i primi dati ufficiali su quanti, in questo periodo così particolare, hanno perso comunque il proprio impiego non promettono nulla di buono nell’incertezza per quello che ci aspetterà subito dopo l’estate.

In attesa di probabili ulteriori decisioni del Governo, in questo luglio caratterizzato da un principio di ripresa economica difficile e ancora molto parziale, è una sentenza della Corte Costituzionale, la n. 150 del 16 luglio 2020, a segnare un punto a favore dei lavoratori.

LA SENTENZA

La Consulta si è pronunciata in merito a due giudizi, sollevati dai Tribunali di Bari e Roma, sulla legittimità costituzionale dell’art. 4 del D.Lgs. 23 del 2015 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183).

L’articolo in questione del provvedimento, meglio noto come Jobs Act, disciplina l’indennità risarcitoria, ridotta alla metà nel caso di “piccole imprese” che non raggiungano i limiti dimensionali previsti dall’art. 18 della legge 300/70, prevista nelle ipotesi di licenziamenti affetti da vizi formali e procedurali. L’indennità è stabilita nella misura di “una mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a dodici mensilità”.

Soprattutto, però, il Decreto legislativo, voluto dall’allora governo Renzi, commisurava l’indennizzo previsto per i licenziamenti, intimati senza giusta causa e senza giustificato motivo oggettivo o soggettivo, esclusivamente al criterio dell’anzianità di servizio. Un criterio che, con quest’ultima recentissima sentenza, la Corte Costituzionale censura in quanto ritenuto rigido e automatico e perciò “inidoneo a correggere le diverse ripercussioni che un licenziamento produce nella sfera personale e patrimoniale del lavoratore ponendosi in conflitto con il principio di eguaglianza e ragionevolezza”.

Secondo la Corte un criterio ancorato in via esclusiva all’anzianità di servizio accentua la marginalità dei vizi formali e procedurali, per i quali è già prevista una tutela affievolita dalla mancata previsione della reintegra, e “ne svaluta ancor più la funzione di garanzia di fondamentali valori di civiltà giuridica, orientati alla tutela della dignità della persona del lavoratore”.

Ecco perché la Consulta statuisce che il giudice terrà conto, innanzitutto, dell’anzianità di servizio ma potrà valutare altri criteri desumibili dal sistema come il numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell’attività economica, comportamento e condizioni delle parti.

“Questa pronuncia dovrebbe sollecitare il legislatore ad affrontare un serio intervento che modifichi l’impianto complessivo del jobs act già caducato dalle frammentarie modifiche legislative e dalle pronunce giurisprudenziali finora intervenute – afferma Giovanna Piccoli (nella foto in alto), responsabile dell’Ufficio vertenze della Cgil Monza e Brianza – va detto, inoltre, che a questo importante risultato, ancora una volta, hanno contribuito gli avvocati della Cgil patrocinando le parti in causa nel giudizio di costituzionalità”.

IL PRECEDENTE

Non è la prima volta che la Corte Costituzionale interviene sul Jobs Act. Che, tra i vizi formali e procedurali, che possono dare il via ad un’indennità risarcitoria per i lavoratori, include le ipotesi di licenziamenti per giusta causa o giustificato motivo soggettivo adottati senza l’osservanza delle norme previste dall’art. 7 della legge 300/70, lo Statuto dei lavoratori, in materia di provvedimenti disciplinari, ovvero per l’assenza del previsto obbligo di  motivazione del licenziamento o per il  mancato esperimento della procedura obbligatoria di conciliazione prevista per i licenziamenti intimati per giustificato motivo oggettivo.

Con la sentenza n. 194 del settembre 2018, infatti, la Corte si era già pronunciata sulla illegittimità costituzionale dell’art. 3 del D.Lgs. 23/2015, proprio nella parte in cui l’anzianità di servizio viene considerata l’unica discriminante per determinare l’indennizzo previsto per i licenziamenti intimati senza giusta causa e senza giustificato motivo oggettivo o soggettivo (leggi l’articolo).

“Nel 2020, come già nel 2018, quindi, è la Corte costituzionale a sanare le ingiustizie di una disciplina che non solo ha cancellato dal nostro ordinamento giuridico l’istituto della reintegra quale rimedio alle gravi ripercussioni che un lavoratore può subire da un licenziamento ingiusto e/o ingiustificato – spiega Piccoli – ma ha, altresì, introdotto un meccanismo che basa l’indennizzo dovuto al lavoratore per il licenziamento dichiarato illegittimo, su di un mero calcolo economico, sottraendo al giudice la possibilità di qualsivoglia valutazione della proporzionalità e congruità della sanzione espulsiva”.

C’è da dire che il legislatore, con il decreto legge c.d. “dignità” n. 87 del 2018, aveva apportato correttivi alle soglie minime e massime previste dal D.Lgs. 23/2015 quale indennizzo per questo tipo di licenziamenti, innalzate da 4 a 6 nel minimo, e da 24 a 36 nel massimo. Ma, per l’appunto, non ha inciso sul meccanismo di determinazione dell’indennizzo stesso venuto meno per effetto della censura di incostituzionalità. Né tantomeno sulla possibilità di reintegra del lavoratore.

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