Cultura

Mosè Bianchi, il grande pittore monzese che sfidò il destino

Un ragazzo che, per volere della sua famiglia, è destinato a intraprendere gli studi tecnici. Ma sente che non è quella la sua strada e la sorte gli darà ragione.

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Il ragazzo guardava l’Arengario con un fortissimo senso di devozione. Quel magnifico edificio aveva assistito agli ultimi 600 anni della storia di Monza ed era ancora lì in piedi nella sua forma maestosa. E poi il racconto della sua fondazione lo affascinava oltremodo.

Pare infatti che l’avessero ultimato nel 1293 come gesto di perdono nei confronti dell’autorità ecclesiastica. Il luogo precedentemente previsto come ritrovo per le istituzioni Comunali erano i portici del Duomo, ma all’arciprete non andava bene. Così, dopo vari richiami, arrivò direttamente da Roma la scomunica per il podestà di Monza. Ci vollero anni per riorganizzarsi e pensare di edificare un palazzo comunale, così come stavano facendo diverse città dell’Italia settentrionale. Alla fine nacque l’Arengario.

Una storia tipica del medioevo: politica contro religione, ghibellini contro guelfi.

Di acqua ne era passata, e adesso nel 1855 il ragazzo fissava la torre del palazzo con i suoi merli ghibellini a coda di rondine. ‘’Forse li hanno fatti così per sbandierare di fronte al clero quello di cui erano capaci’’, pensò. Di certo proprio sotto quelle merlature verso la metà del ‘300 venne posto uno dei primi orologi a ruota d’Italia.

L’arengario sbalordiva da secoli, e lui non poteva far altro che rendergli il suo personale omaggio dipingendolo su una tavola. Perché il ragazzo aveva una passione immensa per il disegno.

Un amore per l’arte purtroppo non totalmente condiviso dai parenti. Sebbene la sua fosse una famiglia di pittori, non tutti volevano che il ragazzo intraprendesse quella strada. Aveva iniziato gli studi tecnici presso il Collegio Bosisio (nell’attuale via Zucchi), per lui erano stati spesi soldi e sacrifici, tanto valeva che continuasse a fare quello. A causa di ciò la sua famiglia era spaccata in due. Aveva tre fratelli, ma soltanto sua sorella Regina credeva fortemente in lui e lo spronava.

La sua non era una vita indirizzata verso gli studi tecnici. Lo sentiva, e quella piccola folla raccolta intorno a lui mentre riproduceva l’Arengario con stile personale non faceva che confermarne la convinzione.

D’altro canto, il grande edificio, sembrava mettersi in posa per permettere al ragazzo di coglierne al meglio ogni sfaccettatura. Il sole splendeva alto in cielo, e il giovane si rese conto che essere investito di luce era la cosa più bella che potesse capitargli. Luce e colore, la sua vita sarebbe andata avanti così. Niente più prediche da parte dei suoi fratelli. Niente più rinunce. Doveva credere in sé stesso, perché solo così ce l’avrebbe fatta.

Il futuro sarebbe stato un grosso punto di domanda, ma almeno il pensiero l’avrebbe rallegrato. Avanti, contro ogni ostacolo, camminando su un filo sottile. Ma ci credeva davvero, ed era la cosa più importante.

Mosè Bianchi, terminati gli studi tecnici, nel 1856 si iscrisse all’Accademia d’Arte di Brera. Successivamente studiò a Venezia, Roma e Parigi, divenendo uno tra i più stimati pittori della seconda metà dell’Ottocento.

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