Cultura

Ariberto d’Intimiano, l’uomo più potente del suo tempo che vide in Monza la salvezza

Nel 1043 l'arcivescovo di Milano, di origini brianzole, decide di allontanarsi dalla città, ormai divenuta a lui ostile, per riparare verso Monza. La sua fu una vita ricca di aneddoti storici.

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Monza. Anno 1043. Un uomo si sta dirigendo a piedi in città provenendo da Milano. Un uomo triste. Un uomo rimasto solo, nonostante il nutrito seguito di persone che lo sta accompagnando. Eppure lui, Ariberto d’Intimiano, fino a poco prima era annoverato tra i più potenti del mondo. Però qualcosa era cambiato, se adesso si trovava costretto a fuggire in esilio verso Monza. Milano, si era appena proclamata repubblica, e Monza rimaneva cittadina imperiale. Lui era ancora formalmente l’arcivescovo, ma di fatto doveva allontanarsi dai confini milanesi.

Cos’era successo?

Partiamo dall’inizio. Ariberto apparteneva a una ricca famiglia proprietaria di vasti terreni in quella parte della Brianza ai confini con il comasco. Si dedicò alla carriera ecclesiastica e, visto il suo importante lignaggio, riuscì in breve tempo a fare strada, ritrovandosi al vertice del cursus honorum quale arcivescovo di Milano. Fu consacrato grazie all’amicizia con l’imperatore del Sacro Romano Impero Enrico II, e combatté al suo fianco una battaglia decisiva per la conquista del regno d’Italia. Fece scelte che migliorarono il prestigio artistico e istituzionale di Milano.

La diocesi conobbe un potere mai visto prima, secondo solo all’imperatore, anche grazie a dei sotterfugi: inventò un documento che attestava la nascita della chiesa milanese per opera di San Barnaba, ben prima della fondazione da parte di San Pietro della chiesa romana. Insomma, sapeva perfettamente muoversi negli ambienti istituzionali ed anche sui campi di battaglia. Alla morte del suo amico Enrico II, per dimostrare fedeltà al nuovo imperatore Corrado II, andò in Borgogna a combattere contro Oddone di Champagne, suo contendente. 

Al ritorno a Milano lo aspettava una ribellione: i piccoli feudatari si erano rivoltati contro il potere di Ariberto perché pretendevano di ereditare i loro feudi come facevano i grandi vassalli. 
Il popolo e in un primo momento anche l’imperatore erano dalla parte dell’arcivescovo, ma quando scoppiò una battaglia tra le fazioni e soprattutto quando l’imperatore rimase coinvolto nella rivolta, quest’ultimo decise di favorire i ribelli e ripugnare l’operato di Ariberto, il quale fu imprigionato in un castello del piacentino. 

Riuscì ad evadere grazie all’aiuto dei milanesi, ma il suo rapporto con Corrado II fu irrevocabilmente compromesso, tanto che l’imperatore arrivò a consigliare al papa di scomunicare l’arcivescovo di Milano. 
Ariberto aveva ancora il sostegno del popolo di Milano, e contro ogni minaccia imperiale inventò il carroccio. Un semplice carro di legno, trainato da buoi, con una trave verticale nel mezzo che sosteneva lo stendardo simbolo di Milano. In questo modo, in battaglia, i soldati vedendo il carroccio, avrebbero avuto una motivazione in più per vincere: la libertà da ogni oppressione.

Non ebbe modo di utilizzarlo, perché Corrado II morì poco dopo, lasciando il trono a suo figlio Enrico III. Subito Ariberto si offrì di incoronarlo re d’Italia in sant’Ambrogio, ed in cambio gli venne tolta la scomunica. 
Sapeva davvero muoversi.

Poi però ci fu un ultimo colpo di scena, perché a Milano scoppiò un’altra rivolta, questa volta da parte del ceto emergente dei mercanti, guidati da Lanzone della Corte. Questi combatterono con tenacia e riuscirono a proclamare la repubblica, ovviamente a costo di dover esiliare i vecchi rappresentanti del potere milanese. Uno su tutti, Ariberto appunto. 

Lo troviamo così nell’anno del signore 1043, quando ormai ha abbandonato la città. Da una parte gli occhi fissi sul sole che sta tramontando, dall’altra già si intravede la sagoma in lontananza della cittadina di Monza. Forse anche lì ci sarà qualcosa da fare. La sua avventura non può finire così, anche se ormai ha raggiunto i 70 anni. A Monza é custodita la reliquia più importante della cristianità. Una corona. Anzi, la corona. Il diadema che cinge la testa di coloro che vengono proclamati re d’Italia, passaggio fondamentale per gli imperatori del Sacro Romano Impero, e per questo, Monza, è definita città imperiale. “Sarà solo un nuovo inizio” pensò. 

Morì poco più di un anno dopo, nel gennaio del 1045. 

Quando capì che la fine si avvicinava, chiese di essere accompagnato a Milano. Voleva chiudere per sempre i suoi giorni nella città che lo aveva visto protagonista di mille imprese.

Dicono che in punto di morte fosse felice, perché finalmente poteva andare a porgere i suoi omaggi ai piedi di sant’Ambrogio. Chissà, magari da qualche parte ci fu l’incontro tra questi due personaggi straordinari e per alcuni aspetti molto simili. Ambrogio e Ariberto, i due più potenti vescovi della storia di Milano.

In foto, complesso monumentale e Basilica di San Vincenzo a Galliano in Brianza, nel comune di Cantù, fondato proprio da Ariberto prima di diventare vescovo.

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