Salute

Emergenza Covid-19: intervista a Francesca Leonardi coordinatrice unità USCA di Monza

L’attività delle USCA è rivolta ai pazienti COVID19, dimessi dalle strutture ospedaliere o mai ricoverati, con bisogni di assistenza al domicilio e per la cura a casa.

squadre-USCA

Ad aprile nel territorio dell’ATS Brianza sono state attivate le Unità Speciali di Continuità Assistenziali (USCA) col compito di supportare la rete sanitaria territoriale con l’intervento direttamente a domicilio.

L’attività delle USCA è rivolta ai pazienti COVID19, dimessi dalle strutture ospedaliere o mai ricoverati, con bisogni di assistenza compatibili con la permanenza al domicilio e per la cura a casa di pazienti con sintomatologia simil influenzale, di cui non è certificata l’eventuale positività ma che devono essere considerati come sospetti casi COVID.

L’intervento dei medici delle USCA è attivato dal Medico di Medicina Generale o dal Pediatra di Famiglia nel momento in cui si evidenzia la necessità di una visita domiciliare. Attualmente sono attive 3 unità per un totale di 36 medici e 3 figure professionali di supporto, con sede base a Lecco, Monza e Concorezzo (Vimercate).

Per lo più le USCA sono composte da giovani medici poiché, come spiega il dott. Valter Valsecchi, Direttore del Dipartimento Cure Primarie di ATS Brianza, “Abbiamo affidato questo compito, sulla base delle richieste, per lo più a giovani medici che si sono messi a disposizione per quest’attività mettendo a disposizione un’indiscussa conoscenza clinica, con tanta voglia di fare e un grosso impegno emotivo”.

Il lavoro di queste unità, il loro funzionamento e le sensazioni provate nell’assistere i pazienti ci vengono raccontate attraverso le parole della dott.ssa Francesca Leonardi, coordinatrice dell’Unità USCA di Monza, 30 anni, residente a Lecco.

La dott.ssa Leonardi spiega in cosa consiste l’attività che questi medici svolgono: “Generalmente le unità USCA, quando arrivano al domicilio, cercano inizialmente di ricostruire la storia clinica del paziente, indagano per capire da quando ci sono sintomi riconducili al COVID19 e se ci sono stati contatti con persone positive. Sentono comunque il medico curante per ulteriori indicazioni. Dopodichè lo visitano, misurano la saturazione dell’ossigeno nel sangue, auscultano i polmoni e valutano la deambulazione. A questo punto parlano con paziente e familiari, verificano la terapia (contattando il curante). Il contatto con il curante è necessario e imprescindibile”.

Quest’emergenza ha sicuramente un impatto forte anche dal punto di vista psicologico, infatti: “La principale paura dei pazienti con sintomi riconducili a COVID19 e non sottoposti a tampone è ovviamente quella di essere positivi e spesso cercano una smentita anche se sono consapevoli che è impossibile (es. “ma dottoressa io ho questi sintomi, ma non ho il coronavirus…”).

I pazienti positivi hanno paura soprattutto di poter contagiare i familiari (specialmente se in casa ci sono anziani o bambini). L’altro grande interrogativo è capire quando potranno tornare “alla vita normale” (chi al lavoro o chi uscire semplicemente per andare al supermercato) senza rischiare di contagiare nessuno. In moltissime persone appare evidente un elevato senso civico e di rispetto verso il prossimo: personalmente penso che preoccuparsi per “gli altri” sia l’unico modo per uscirne insieme”.

Francesca racconta un episodio che le è rimasto impresso durante un intervento: “Vengo chiamata al domicilio di un paziente uomo di circa 70 anni con sintomi respiratori e febbre da circa 10 giorni, lui vive a casa con la moglie e il figlio. La moglie e il figlio stanno bene, mentre lui ha già iniziato la terapia antibiotica da qualche giorno, ma le condizioni stanno peggiorando. Arrivo in casa con tutti i dispositivi e vengo guardata subito con aria scettica: ai familiari non è molto chiara la situazione, il COVID si è diffuso da pochi giorni e non è ben chiaro cosa comporti… Entro in camera e trovo il paziente sdraiato a letto… Dopo un primo approccio, inizio a visitarlo (classica polmonite bilaterale), saturazione bassa, non ho inizialmente il coraggio di farlo deambulare (il quadro è già chiaro e il paziente è da ospedalizzare). Sto cercando il modo in cui dirglielo quando all’improvviso lui mi guarda fisso e mi dice: “dottoressa lo so che ho il coronavirus…e so che devo andare in ospedale, tornerò a casa?”.

Un lavoro sicuramente impegnativo anche per i Medici delle squadre USCA: “Quando arriva una segnalazione un medico ha paura, quindi è concentrato e preoccupato al tempo stesso. I pensieri in testa sono tantissimi: seguire le istruzioni per una vestizione corretta (non è così facile come può sembrare), trovare l’abitazione (talvolta non è così automatico), cercare di non contagiarsi, ma al tempo stesso far tutto il possibile per aiutare il paziente, disinfettare i dispositivi. Le cose da ricordare sono molte sia dal un punto di vista di protezione sia da un punto di vista medico. Ma l’aspetto che colpisce di più ovviamente è il dover limitare i contatti umani. Il dover cercare un modo indiretto per far capire la nostra vicinanza al paziente. Mai come ora ci si rende conto di quanto supporto possa dare una “mano sulla spalla del paziente”.

Poi certamente, un pò il pensiero di diventare noi stessi vettori del COVID19 non ci abbandona mai”.

La vita personale e soprattutto familiare – conclude la dott.ssa Leonardi – è cambiata radicalmente. Ci sono colleghi che hanno deciso di traslocare e vivono ormai da mesi soli, altri abitano ancora con la famiglia ma la scelta non è stata facile. Personalmente io vivo ancora a casa con mio marito (non ne ha voluto sapere di andarsene quando gliel’ho chiesto all’inizio dell’emergenza e lo ringrazio) e non so come farei senza: è un aiuto prezioso nella disinfezione tutte le volte che rientro in casa e un supporto psicologico e morale fondamentale. Ovviamente però tutti noi medici limitiamo i contatti con i conviventi, passiamo molto tempo a disinfettare tutto e resta forte la paura di contagiare le persone care. Penso che le USCA abbiano insegnato a noi sanitari a collaborare. Siamo tutti “sulla stessa barca” in questa situazione di emergenza mondiale e ognuno può dare il proprio contributo in forma diversa. Vi assicuro che dopo una lunga giornata passata a contatto con pazienti COVID 19 positivi, vedere un sorriso, ricevere un bel messaggio magari da amici o familiari lontani fa passare molta della stanchezza e dello stress accumulato”.

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