Cultura

Monza durante la peste del 1630, una piccola storia di speranza

Racconto romanzato con protagonista un cittadino che si trova a doversi confrontare con tutti i cambiamenti che un'emergenza sanitaria, ieri come oggi, può comportare.

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Francesco restava in casa. Le istruzioni erano state chiare: non poteva, non doveva muoversi da lì, e in quel preciso momento, non avendo altro da fare, stava guardando fuori dalla finestra. La nebbia avvolgeva ogni vicolo di Monza del 1630, rendendola una città spettrale. Non si sarebbe mai immaginato che nella sua vita avrebbe passato giornate intere come questa, e il pensiero lo angosciava. 
Fuori da casa sua le strade erano completamente vuote. 
Dove prima c’era la vita, con schiamazzi, urla di mercanti, colori, e le chiacchiere vivaci della gente, ora regnavano le tenebre. 

Dalla sua finestra poteva vedere solo grigio e sentire solo silenzio. Un vuoto colmato dal rumore del carro di qualche monatto che portava via un’altra vita.
Dal canto suo, Francesco, era giustamente molto preoccupato. Conosceva i sintomi che davano inizio a quel morbo, e in qualche maniera se li sentiva addosso, un po’ alla volta, sebbene sapesse che fossero il frutto delle sue ansie. Unica certezza, il cuore che batteva in modo esagerato dalla mattina alla sera, con qualche pausa, ogni tanto, tra un battito e l’altro. Come se potesse fermarsi così, improvvisamente e non riprendere più.

Francesco era giovane e nel pieno delle sue forze, ma la solitudine e la paura lo stavano devastando. 
Le notizie arrivavano in fretta alle sue orecchie. Sapeva ogni giorno il conteggio dei nuovi contagiati portati al lazzaretto fuori dalle mura (dove sorge l’attuale chiesa Ortodossa Romena ‘’Tutti i Santi’’, nei pressi dello stadio ‘’Sada’’), nonché il numero dei decessi. Conosceva le precauzioni per contrastare il morbo: dal rimanere in casa, agli pseudo-rimedi di qualche spezia, fino alla vera e propria caccia all’untore, che forse era stato trovato. Lui però non ci credeva. Non poteva dipendere da una persona. Era qualcosa di più grande e misterioso da combattere.

Si ricordava anche gli aneddoti raccontati da suo nonno. Su tutti, la visita a Monza di San Carlo Borromeo avvenuta una cinquantina di anni prima, che guarì diverse persone, tra cui una donna, più o meno dove adesso stavano costruendo la nuovissima chiesa di Santa Maria degli Angeli, dono di Bartolomeo Zucchi.

Ma San Carlo era ormai morto da tanto tempo, e suo nipote Federico, attuale arcivescovo di Milano, non sembrava poi così santo.
Sarebbe stata una guerra difficile, spaventosa, invisibile, e Francesco aveva paura.

Poi però sentì un sibilo.

La nebbia stava piano piano lasciando la sua sede. Una leggera brezza si era mossa liberando la visuale. Finalmente poteva vedere oltre la piazza, al di là delle case adiacenti. Vedeva gli alberi in fiore, del resto era il mese di marzo con la primavera alle porte. Faceva anche caso al cinguettio degli uccelli: loro del morbo se ne fregavano, la vita andava avanti lo stesso. E poi le api, e altri insetti che industriosamente lavoravano portando in giro il nettare necessario per far prosperare loro e quei fiori che avrebbero colorato il prato davanti alla sua finestra.

Dopo i difficili mesi invernali, nei quali le piante e gli animali hanno saputo aspettare, adesso potevano sfogare la propria vena artistica. Lo facevano ogni anno dall’inizio dei tempi.
La piazza era un brulicare di vita, non umana, ma comunque vita. 

Francesco non aveva mai apprezzato tutto questo come in quel momento. Non vedeva l’ora di poter tornare fuori e godersi ogni minuto i miracoli della natura. 
Finalmente si sentiva parte di quel meraviglioso meccanismo. 

Mentre ammirava lo scenario, tornò il sole a splendere, e si scoprì ottimista.
In fondo anche quegli strani sussulti del suo cuore potevano avere una spiegazione. Si accorse improvvisamente che il primo battito dopo l’interruzione gli arrivava dritto in gola, come se il muscolo cardiaco stesse dicendo: “guarda che non ci penso proprio a fermarmi, e anzi posso riprendere ancora più forte di prima”.

Ora sì che Francesco avrebbe aspettato con impazienza e viva speranza. Sapeva che la ripresa non sarebbe stata semplice, ma conosceva i monzesi, e insieme, uniti, ce l’avrebbero fatta. 
Doveva solo aspettare.
E Francesco da quel giorno avrebbe saputo aspettare.

Foto repertorio MBNews by Luca Colnago

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