Salute

Emergenza Aids, +159 casi all’anno, ma ce ne sono molti. Intervista al Prof.Gori

Il primo dicembre è la giornata mondiale per la lotta all'AIDS, la malattia a trasmissione sessuale che ancora oggi fa più paura, ma se ne parla sempre meno.

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Il primo dicembre è la giornata mondiale per la lotta all’AIDS, la malattia a trasmissione sessuale che ancora oggi fa più paura. Secondo i dati epidemiologici relativi alle nuove infezioni da HIV in Italia, i sieropositivi inconsapevoli sono uno dei maggiori pericoli per la salute pubblica e individuale.

L’Istituto Superiore di Sanità sottolinea che nel 2018 in Italia sono state segnalate 2.847 nuove diagnosi di infezione da HIV, pari a 4,7 nuovi casi per 100.000 residenti, lievemente al di sotto della media dei Paesi dell’Unione Europea. La maggioranza delle nuove diagnosi di infezione da HIV è attribuibile a rapporti sessuali non protetti, che costituiscono circa l’80% di tutte le segnalazioni. Ma qual è la situazione in Brianza? Quali i numeri? MBNews ha intervistato il Prof. Andrea Gori, Direttore del reparto di Malattie Infettive della Fondazione Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico di Milano e che fino a poco tempo fa operava al San Gerardo.

Già lo scorso anno, nell’ambito della 22° Conferenza internazionale sull’AIDS, si parlava di segnali allarmanti di riaccensione della pandemia. Qual è la situazione in Brianza? Quanti sono i malati e qual è la fascia di età più colpita?

“I sieropositivi in Brianza sono all’incirca 2mila con una incidenza di malattia annua di 159 nuovi casi. Più in generale i numeri parlano di un aumento delle nuove infezioni nella fascia di età compresa tra i 25 e 29 anni. Una delle ragioni principali riguarda il fatto che i giovani non usano il preservativo. Esiste pertanto l’urgenza di educare i ragazzi a una buona salute, parlandone a scuola ma anche in famiglia, cosa che purtroppo accade sempre meno. Paradossalmente oggi stiamo vivendo un’epoca in cui esiste una maggiore apertura nei confronti della sessualità, ma all’interno dei nuclei familiari continua a essere molto complicato parlare di malattie sessualmente trasmesse e in particolare di Aids”.

Qual è l’entità ‘stimata’ del sommerso?

“Partiamo dall’ultimo bollettino nazionale, che è appena stato pubblicato: ci indica che il numero delle diagnosi tardive è il 60% delle nuove diagnosi. Ciò vuol dire che c’è un 35-40% di sommerso”.

Si può parlare di emergenza oppure ci sono le condizioni perché lo diventi?

“In realtà, io spero che nei prossimi anni il fenomeno vada nella direzione opposta, ovvero si riduca, ma ovviamente dipende da quello che metteremo in atto per contrastare la diffusione della malattia”.

Quali sono dunque le strategie da adottare, ovvero quelle che abbiamo a disposizione, al fine di ridurre l’incidenza della malattia?

“Fondamentalmente i punti su cui bisogna lavorare sono due: allargare l’offerta gratuita del test per l’HIV al maggior numero di persone e trattare nel minor tempo possibile i soggetti risultati positivi. Si è visto in alcune realtà metropolitane che questo programma di intervento funziona molto bene: è di fatto in grado di ridurre l’incidenza della patologia”.

“I farmaci di oggi infatti, sono talmente efficaci nel controllare la replicazione del virus, da rendere i soggetti in cura non più contagiosi. E’ quindi importante scoprire tutte le persone sieropositive, per poterle sottoporre ai trattamenti farmacologici di cui disponiamo. Il problema principale è inerente appunto al sommerso: se c’è una persona che si infetta, non fa il test e non ha la minima percezione del fatto che possa essersi infettata, ha dieci anni di tempo (è questa la latenza della malattia) per contagiare numerose altre persone”.

“Se da un lato quindi, per noi oggi è più semplice trattare le persone che diventano sieropositive, dall’altro risulta ancora difficile che i soggetti abbiano la percezione del rischio e quindi decidano di sottoporsi al test. Ciò evidenzia l’esistenza di problematiche di comunicazione, formazione ed educazione alla salute, che oggi devono interessare non soltanto i medici, ma tutte le figure che si occupano di salute pubblica, giornalisti compresi. L’Aids è una patologia sessualmente trasmissibile con uno stigma ancora molto forte, parlarne è sempre complicato”.

Quali sono le categorie più a rischio di contrarre il virus?

“Stiamo assistendo a un aumento delle infezioni nei giovani omosessuali, ma anche nei giovani eterosessuali per effetto della promiscuità sessuale delle nuove generazioni. Riguardo invece alle prostitute e ai transessuali, oltre a essere categorie per definizione maggiormente esposte al rischio di contagio, sono anche quelle che vivono un maggior disagio sociale, condizione che complica le possibilità di cura e monitoraggio. Capita sovente che costoro, pur sapendo di essere sieropositivi non si rivolgano nemmeno agli ospedali, di fatto non si sottopongono ad alcun trattamento”.

Da un lato il vaccino Tat è alle fasi finali della sperimentazione, dall’altro fa capolino un nuovo ceppo del virus, chiamato HIV-1 gruppo M sottotipo L. Quali sono le sue considerazioni a riguardo?

“Rispetto al vaccino in realtà siamo ancora in alto mare. Oltre al Tat, ci sono diversi altri vaccini che sono in fase di studio, nessuno però sembra essere particolarmente efficace, al momento. Dobbiamo comunque continuare a lavorare in questa direzione, nonostante la soluzione non sia dietro l’angolo. Non bisogna però dimenticare che oggi disponiamo di farmaci sempre più innovativi, efficaci e ben tollerati. Inoltre, proprio a Monza è attualmente in corso una sperimentazione sui farmaci cosiddetti Long Acting, ovvero farmaci molto simili a quelli già in commercio, ma riformulati in maniera tale che possano essere somministrati tramite una semplice iniezione intramuscolo, una volta al mese o al massimo ogni due mesi. I Long Acting arriveranno presto sul mercato e rappresenteranno un grosso passo avanti nella gestione delle persone sieropositive”.

“Riguardo invece alla scoperta del nuovo ceppo, non è di per sé una notizia eclatante, perché si tratta di un ceppo non particolarmente diffuso e ben controllabile con i farmaci che abbiamo oggi a disposizione. Tuttavia la notizia nasconde un lato oscuro: è la testimonianza che questo virus continua a mutare e il fatto che abbia questa grande capacità di differenziarsi rende estremamente difficile l’elaborazione di un vaccino che sia efficace per tutti i ceppi”.

Qual è la sua visione e la sua speranza per il futuro, riguardo all’HIV?

“Purtroppo, come già detto poc’anzi, la sfida di creare un vaccino oggi, dopo 30 anni di studi, è ancora abbastanza lontana, tuttavia sono del tutto ottimista, perché l’importante è riuscire a ottenere risultati considerevoli nella prevenzione della malattia. Attualmente, le persone sieropositive riescono a condurre una vita normale, quando sono curate correttamente non sono nemmeno più contagiose, ciò consente loro di avere relazioni sicure e poter anche rispondere a un desiderio di genitorialità. Possono avere una vita all’interno della società che non ha alcun motivo per essere diversa da quella di tutte le altre persone. Ora dobbiamo cercare di ridurre al minimo i nuovi contagi. Attualmente abbiamo 3’500 nuove infezioni all’anno in Italia, non possiamo più permetterci il lusso di avere questi numeri. Abbiamo in mano le armi per poter agire: i test, i trattamenti precoci, la prep (la profilassi pre-esposizione). Questa è una sfida che riguarda non soltanto i medici, ma tutta una serie di professionisti che devono iniziare a collaborare, orientati allo stesso risultato”.

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