Cultura

C’è un poeta in Cgil: leggendo “Poesie” di Matteo Villa

Esordio letterario per il 34enne "sindacalista-poeta", che nel suo libro parla, senza timore di sembrare crudo o spietato, di lavoro, droga e marginalità, ma anche di amore, famiglia e speranza.

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«L’unica cosa più bella / del fare arte immortale / è costruire la giustizia sociale». È l’affermazione conclusiva de “I versi dei servi” una delle 41 poesie raccolte nel primo libro di Matteo Villa, “Poesie”, presentato venerdì 19 luglio a Monza nel corso di “Macello 120 – Spinoff”, la ormai tradizionale festa dei giovani della Cgil di Monza e della Brianza.

Sindacalista prima ancora che poeta (lavora da quattro anni al Nidil, il sindacato dei lavoratori atipici), Villa ha 34 anni e dice di aver cominciato a scrivere «per colpa di Baudelaire», mentre si riconosce debitore di Andrea Pazienza per quel che riguarda la scelta di temi sociali e politici e l’utilizzo di un linguaggio mutevole, anche volutamente volgare o osceno se il caso lo richiede.

E se la definizione “sindacalista-poeta” può sembrare solo una bella trovata dell’ufficio stampa della Cgil, è vero che per Villa i due ruoli sembrano essere perfettamente complementari: tanto che molte delle sue poesie più toccanti sono dedicate proprio al mondo del lavoro. Dai ricordi personali di colloqui frustranti («Sei come un mulo / la tua massima ambizione / una controfirma indeterminata / quasi a dire: fine pena mai») al caso dei driver di Foodora, fino al tema delle morti sul lavoro di “A tempo determinato”, l’ultima scritta in ordine di tempo.

«Avevo partecipato a un presidio con alcuni colleghi, dove avevo incontrato la famiglia di un ragazzo che aveva perso la vita sul lavoro – racconta -. Quando incontro una storia che mi colpisce a volte non basta tornare a casa a parlarne: mi resta in testa finché non riesco a scriverla, è una sorta di autoterapia. Scrivo per necessità, non mi sono mai detto “scrivo per diventare scrittore”: comincio mettendo su carta emozioni e sensazioni, le faccio decantare e poi, magari anche mesi dopo, comincio a sistemare gli appunti».

E come fare a capire se sono valide? «Farle leggere ad altri mi imbarazza, quindi per me l’unico modo è leggerle ad alta voce. Anche se non mi sento un grande interprete, anzi, credo che l’interpretazione debba essere apertissima. Anche perché le poesie per me devono essere la base per una discussione a partire dai temi che trattano: in fondo, se ho pubblicato, è anche per avere dei riscontri su cosa ne pensano gli altri, come un confronto più ampio».

Questo anche perché, quasi come una regola di poetica, Villa afferma di essere interessato a parlare «solo di cose che ho conosciuto direttamente»: e quindi non solo lavoro ma anche tanti altri aspetti della vita, dall’amore alla famiglia (stupenda “Quale meraviglia”, dedicata al figlio), dai migranti alla rappresentazione, sempre scevra di giudizio, di tante figure che si muovono ai margini della società, o di ritratti di banale, ma non per questo meno acuta, sofferenza quotidiana. «Quando scrivo “io”, non sono mai io e basta, ovviamente – precisa -. A volte mi metto nei panni di un’altra persona, per aiutare chi legge a calarsi nei panni degli altri».

Come avviene per le numerose storie di dipendenza: «Non mi sono mai drogato, ma forse anche perché ero dipendente da altre passioni che mi hanno tenuto lontano dalla droga – ammette -. Il gioco del calcio, in particolare, era una passione totalizzante, sapevo che anche bere un po’ di più mi avrebbe fatto giocare male: sembra una sciocchezza ma questa cosa mi ha tenuto lontano da molte cose. Ho avuto amici che sono stati coinvolti dalla droga, ma, soprattutto, ho imparato sin da bambino a non giudicare le persone senza conoscerle. Nel 1984 mio padre ha fondato una cooperativa di recupero per le dipendenze, la cooperativa Solaris: da ragazzino andavano anche in vacanza con loro, mi trattavano bene, mi divertivo, sapevo che erano lì per un qualche problema ma non riuscivo bene a capire quale potesse essere». A questo proposito nel libro l’immagine forse più struggente è quella, doppia, di Elena: che a volte è semplicemente «Elena del lago», altre «Elena dell’ago», in bilico tra oblio e terrore di aver sprecato la propria vita.

E sono proprio questi piccoli dettagli, come un apostrofo in più, a rendere preziosi i componimenti di esordio di Villa, invogliando a tuffarsi nel testo per scoprire nuove assonanze, giochi di parole, o vere e proprie citazioni. C’è il titolo “42“, che rimanda alla risposta «alla domanda fondamentale sulla vita, l’universo e tutto quanto» di Douglas Adams (e che Villa risolve come la somma di 21 e 21, secondo la leggenda il peso di due anime), c’è “Veglia” che copia Ungaretti nell’attacco («Un’intera nottata…») per parlare di tossicodipendenza, ci sono i rimandi a De André, che a sua volta riprendeva Edgar Lee Masters, per sottolineare frasi come «è così triste ritrovarsi cresciuti / senza essere diventati adulti», in cui tanti “anagraficamente adulti” si saranno ritrovati. Ma la citazione non è mai un gioco fine a se stesso: «Le uso quando possono essere funzionali, perché forniscono diverse chiavi di lettura, sottolineando un passaggio che spesso mi sta particolarmente a cuore. E perché proprio dalle citazioni si favorisce la discussione e la condivisione con chi le legge e le riconosce».

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