Paolo Rumiz a Iterfestival con “Il filo infinito”, un viaggio alle radici d’Europa

Pienone per lo scrittore triestino. Un viaggio dall’Atlantico al Danubio alla ricerca dell’idea di Europa e della sua unica chance di sopravvivenza: l’accoglienza e l’integrazione.
«Spesso le parti più interessanti di un viaggio sono le deviazioni». E se lo dice Paolo Rumiz («mi definiscono scrittore di viaggi, ma scrivere non mi è mai interessato, quello che volevo era girare il mondo»), viene voglia di partire solo per farsi sorprendere da incontri inaspettati, strade secondarie e fuoriprogramma.
D’altra parte il nuovo libro del giornalista triestino, “Il filo infinito”, è nato proprio così: lo ha spiegato lui stesso, ospite d’onore di Iterfestival, nel corso dell’incontro tenutosi sabato 23 marzo nella biblioteca di Besana in Brianza. Quasi un’anteprima nazionale (prima di Besana Rumiz aveva presentato “Il filo infinito” a “Leggermente”, a Lecco), accolta con orgoglio dal sindaco Sergio Cazzaniga e, ovviamente, dalla squadra “tutta al femminile” delle organizzatrici, prime fra tutte Marta Comi, presidente del Consorzio Brianteo Villa Greppi, e Martina Garancini, della libreria “Lo Sciame Libri”, ad Arcore.
«Due anni fa ho percorso la linea di faglia del terremoto in Italia centrale, da Amatrice a Camerino, e l’ho raccontato per La Repubblica – ricorda Rumiz -. Non pensavo minimamente a San Benedetto e ai benedettini: poi arrivo a Norcia, e trovo, in mezzo alla distruzione, la statua del santo, intera. Era chiaramente un segnale, ma non capivo cosa mi stava dicendo: forse mi stava indicando che l’Europa avrebbe affrontato una nuova guerra? O, piuttosto, voleva dirmi “vedi, nonostante tutto io sto ancora in piedi”?».
Quella sera stessa, in un container ma con una connessione internet, Rumiz si è messo a fare le prime ricerche su San Benedetto: «È una vera e propria epopea. Si tratta di uomini che, disarmati, hanno ricolonizzato l’Europa rimettendo in piedi un sistema fatto di preghiera e rapporto con il territorio. Riconquistano le periferie, costruiscono monasteri come luoghi non solo di preghiera, ma anche di lavoro, e, infine, seducono i barbari con il profumo del luppolo, del vino, dei formaggi e del pane ancor prima che con quello dell’incenso». Un’impresa che, forse, ha più di un rapporto con l’identità sismica del centro Italia: «I benedettini erano uomini caparbi, abituati a ricostruire. Dietro c’è l’orgoglio per il lavoro fatto a mano: voi sapete bene di che si tratta, dopotutto siete brianzoli, ma fino a quel momento la fatica era sempre stato un compito da schiavi».
Pur dichiaratamente ateo («non vado mai a messa, non sono mai stato un baciapile»), Rumiz rimane così affascinato dalla figura di Benedetto («la cosa bella è che non ha mai fatto miracoli, l’invisibile della fede andava di pari passo con il visibile del lavoro»), da decidere di compiere un nuovo viaggio, questa volta tra monasteri e abbazie europee, «dall’Atlantico fino alle sponde del Danubio». Non una fuga dal mondo, tutt’altro: un’occasione di riflettere su migrazioni ed Europa: non a caso il sottotitolo del libro è “Viaggio alle radici d’Europa”. «Quelle radici cristiane sono la base della nostra cultura: mi appariva sempre più evidente, leggendo dei benedettini che assorbivano i barbari, che il nostro obiettivo è l’integrazione – racconta Rumiz, proprio mentre, a qualche km di distanza, sfila la manifestazione monzese “Brianza accogliente e solidale” -. L’Europa è il punto finale prima del mare, il suo destino è accogliere. Ogni volta che lo ha fatto è cresciuta, quando invece ha alzato muri ha rischiato il suicidio, come è accaduto nel ‘900. Ricordiamocelo: è dalla disperazione che nasce l’Europa, un’unione spirituale prima che economica e burocratica. Come gli uomini appenninici, induriti dai terremoti, che si rimboccavano le maniche e ripartivano, senza lamentarsi o incolpare gli altri».
Dall’Umbria al Veneto, dal Belgio all’Ungheria, Rumiz entra in contatto con un mondo monacale per certi versi inaspettato («i monaci non sono preti, non conoscono gerarchie, non c’è una predominanza del genere maschile sul femminile»), dove anche la regola benedettina non è mai «un regolamento da seguire in modo farisaico»: i lettori troveranno, nel capitolo dedicato all’abbazia cistercense Cîteaux, un episodio “alla Umberto Eco”, surrealmente poetico, in cui un vecchissimo monaco infrange al pianoforte l’obbligo del silenzio, come «una via d’uscita capace di fare da ponte alle voci del mondo». Tuttavia lo spunto per il titolo Rumiz lo ha trovato poco lontano da qui, nel monastero di Viboldone, a sud di Milano («un presidio di silenzio a due passi dall’Ikea, dall’autostrada e dall’alta velocità»), dove intravede «un’anziana monaca vestita di nero, con un grande gomitolo bianco in mano, come viene rappresentata anche Scolastica, la sorella di Benedetto».
Se da viaggio nasce viaggio, la stessa cosa si può dire per i libri: e Rumiz, che sabato ha parlato spesso di Europa, ha anticipato al pubblico di Iterfestival la trama e alcuni passaggi del suo prossimo lavoro, una rilettura calata nell’oggi del mito di Europa, composta in versi come “La cotogna di Istanbul”, «solo che adesso sono molto più bravo rispetto ad allora». «Europa è figlia dell’Asia, di cui noi non siamo che una protuberanza – spiega -. È donna, migrante, stuprata da Zeus: attraversa il mare e fonda una progenie. Nel mio libro sarà una profuga siriana, giovanissima, che chiede rifugio a una nave di vecchi naviganti, dei nonni-argonauti che la aiutano a sfuggire alla persecuzione di Giove, e di cui finiscono per innamorarsi platonicamente, tanto da dare alla loro terra il suo nome: Europa». Ancora un viaggio, dunque, ancora una ricerca dell’idea di Europa: temi cari a Rumiz, che, mentre ribadisce «Non abbiamo altra alternativa che l’accoglienza, pena l’autodistruzione» parla del suo rapporto con la frontiera, indispensabile per incontrare e confrontarsi con “l’altro”: «Una volta amavo andare “di là” – ricorda -, oggi, anche se ho combattuto tutta la vita perché il confine cadesse, non ho alcun interesse ad andare in Austria o in Slovenia: trovo un paesaggio che mi somiglia. Viaggiare, invece, significa rispecchiarsi negli occhi di chi è diverso da te, per conoscere se stessi». Una chiacchierata di due ore che non poteva che cominciare e finire parlando del cammino, mezzo di elezione di uno spostamento lento, consapevole, antico, il più semplice di tutti e, forse proprio per questo, rivoluzionario. «Ogni giorno cammino per un’ora: mi abbassa la pressione e mi vengono le idee. I versi sul mito di Europa non mi sarebbero venuti così rotondi, altrimenti». Quindi c’è un collegamento tra piedi e letteratura? «Certo, il tema comune è il viaggio. Ma per me il legame nasce in quarta elementare: la maestra mi diceva che scrivevo con i piedi, e a me scocciava che venissero squalificati: nelle fiabe della nonna erano sempre così importanti! Ho cercato per tutta la vita di dimostrare che quella maestra aveva torto: per me “scrivere con i piedi” vuol dire essere sempre sui fatti, che è l’essenza del lavoro di giornalista. Non mi piacciono gli scrittori dalle scarpe troppo lucide – aggiunge – mi piace chi va incontro all’altro, pronto a condividere».
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