Possono una terra e una lingua condizionare l’identità profonda di uno scrittore? Domanda complicata. Anzi, quasi impossibile, alla quale ha però cercati di dare una risposta Renato Ornaghi, ingegnere prestato all’arte o viceversa, che sabato scorso ha presentato la sua ultima fatica: Leopardi in Brianza, la traduzione in dialetto brianzolo di quindici tra i più celebri Canti leopardiani.
“Cosa avrebbe mai scritto Giacomo Leopardi, se anziché aver avuto i natali a Recanati fosse nato nella Brianza insubre – si chiede Ornaghi -? Avrebbe qui composto i medesimi grandissimi versi?”. Difficile dare una risposta definitiva. Di certo c’è che Ornaghi, dopo avere tradotto in brianzolo le più grandi canzoni di Beateles e dei Rolling Stone, ha deciso di alzare l’asticella. Fra i titoli tradotti compaiono infinii, El passer deperlù, La quiett dopo la tempesta, I mè regord.
Un’operazione che farà discutere e magari storcere il naso a qualche purista, ma che pone sul piatto tutti i termini della sfida mai chiusa tra lingua ufficiale e regionale, testando la capacità di questa d’essere alla pari dell’altra non solo nell’uso quotidiano, ma anche negli aspetti più poetici e creativi della letteratura “alta”.
Nel libro i canti tradotti sono affiancati dalle celebri vedute a colori della Brianza del primo Ottocento, dipinte dai coniugi milanesi Federico e Carolina Lose. “Se fosse vissuto in Brianza – aggiunge Ornaghi -, egli avrebbe ammirato proprio quei magnifici panorami. Una maniera in più per proporre e raffigurare ai lettori il personaggio – tutto sulla carta, ma non per questo meno intrigante – di un Giacomo Leopardi scrittore-poeta-filosofo nato nel Brianzashire”.
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