Franchising e fallimento


Prendendo spunto da alcuni fatti di cronaca che hanno visto il fallimento di importanti società franchisor, ma anche di qualche franchisee, è utile conoscere quali effetti può avere su un contratto di franchising la dichiarazione di fallimento di una delle due parti, quali sono le conseguenze di tali effetti e quali sono gli strumenti offerti al franchisee o al franchisor, a seconda di quale delle due parti fallisca, per tutelare i diritti derivanti dal rapporto contrattuale.

Le due ipotesi devono essere esaminate separatamente ma alcune considerazioni generali sul tema del fallimento ne sono la necessaria premessa. Il fallimento è quella particolare condizione giuridica nella quale viene a trovarsi un imprenditore quando l’autorità giudiziaria accerta che l’impresa si trova in uno stato economico e patrimoniale tale da non essere più in grado di proseguire la propria normale attività economica e commerciale.

Una volta che il Tribunale dichiara il fallimento, l’azienda che faceva capo all’imprenditore fallito cessa la propria attività; all’imprenditore fallito subentra una figura nominata dal giudice, il curatore fallimentare, che ha essenzialmente il compito di verificare quanti e quali siano i debiti del fallito e di provvedere a soddisfare gli stessi nella misura di quanto riesce a ottenere dalla “liquidazione” dei beni e secondo regole ben precise dettate dal codice civile e dalla legge fallimentare.

Quando interviene la dichiarazione di fallimento, si pone dunque il problema di vedere quale debba essere il “destino” dei contratti – e delle prestazioni dallo stesso nascenti – che l’imprenditore fallito ha sottoscritto prima del fallimento e che siano ancora in vigore al momento della pronuncia del Tribunale.

La legge fallimentare vigente, a differenza che per altri contratti tipici, non detta una norma specifica per i contratti di franchising; sorge pertanto la necessità di vedere quali norme più generali devono applicarsi al caso di fallimento di un imprenditore parte di un contratto di franchising.

La legge fallimentare detta, all’art. 72, una disciplina generale che prevede che il destino dei contratti ancora pendenti alla data di fallimento sia sostanzialmente in mano al curatore: dalla data della sentenza il contratto si intende “sospeso” – ma non risolto – fino a quando il curatore non decide, comunicandolo all’altra parte, o di subentrare nel contratto al posto della parte fallita, assumendosi tutti gli obblighi contrattuali, oppure di sciogliersi dal medesimo.

La parte non fallita si trova quindi a subire la scelta del curatore e ha solo la possibilità di sollecitare una tempestiva scelta da parte dello stesso per l’una o l’altra ipotesi entro un certo termine decorso il quale il contratto, in assenza di una dichiarazione del curatore, si scoglie.

L’art. 74 specifica poi che per i contratti di durata, come il franchising, il curatore che decide di subentrare, deve pagare integralmente il prezzo dei beni già consegnati alla parte fallita o dei servizi resi alla stessa. Tuttavia, analizzando la natura e i meccanismi del franchising, le norme citate appaiono di difficile applicazione.

In primo luogo il contratto di franchising rientra in quella categoria di contratti nei quali l’elemento di fiducia personale tra franchisor e franchisee assume un grandissimo rilievo: per questo l’ipotetico subentro del curatore nella originaria posizione del fallito, franchisor o franchisee, risulta quanto mai problematica. In secondo luogo il franchising è un contratto che prevede una quotidiana attività di impresa: ma la procedura fallimentare, per la sua natura liquidatoria, non è finalizzata all’esercizio di un’attività economica.

E’ pur vero che il curatore ha la possibilità di richiedere al giudice di essere autorizzato a proseguire provvisoriamente l’attività per tutelarne il valore (avviamento, clientela) nella prospettiva di un’eventuale cessione della rete, a un terzo: ma il subentro del curatore nella posizione del fallito contrasta con la natura fiduciaria e personale del rapporto tra franchisor e franchisee.

D’altra parte in assenza di una autorizzazione provvisoria all’esercizio dell’impresa il contratto di franchising si svuoterebbe di contenuto: l’affilato potrebbe ritenere risolto il contratto di franchising e liberarsi dagli obblighi di carattere economico (versamento di royalties) e di comportamento (conformazione alla rete, non concorrenza, predisposizione di campagne pubblicitarie locali, approvvigionamento esclusivo, ecc.) ma per contro perderebbe il diritto di utilizzo del marchio e il diritto all’assistenza da parte dell’affiliante.

In sintesi non esiste una normativa certa che si possa applicare al franchising e le soluzioni devono essere trovate, come hanno fatto i giudici finora, esaminando in concreto ogni caso.

Se a fallire è un franchisor di una rete in cui prevale la funzione di fornitura dei beni agli affilati , il curatore potrebbe avere l’interesse di cedere i POS in blocco a qualcuno interessato non tanto a rilevare il marchio o il know-how del fallito ma ad acquisirne la rete, con le autorizzazioni amministrative e le location, per poi usare il proprio know-how e il proprio marchio (Tribunale di Nola, Sent.57 del 2009).

In questo caso l’autorizzazione al curatore di continuare l’attività di impresa consentirà ai franchisee di proseguire nella loro, prima col curatore, poi con chi acquisirà la rete dal fallimento. Un caso concreto ha visto protagonista in questo senso una catena in franchising di pizzerie con consegna a domicilio.

Nell’ipotesi di un franchising di servizi (rete di insegnamento di lingua straniera o di ballo) l’esercizio provvisorio è indispensabile per una futura cessione essendo l’elemento della continuazione della prestazione alla clientela essenziale al mantenimento della stessa e dell’avviamento.

Se invece a fallire è il franchisee occorrerà indagare sulle ragioni del dissesto: se la causa sono fattori soggettivi riconducibili all’incapacità dell’affiliato (problemi finanziari o scarsa capacità di gestione) un esercizio provvisorio dell’attività dell’affiliato fallito non avrebbe senso e quindi il contratto dovrebbe risolversi per consentire il rapido subentro di un altro affiliato gradito ovviamente al franchisor.

Se si dovesse invece accertare che la causa del dissesto dell’affiliato è invece la formula di franchising non sarebbe ragionevole né una continuazione provvisoria dell’attività né il subentro di un altro franchisee: in questo caso l’unica soluzione è la risoluzione del contratto e la regolazione dei rapporti economici in sede fallimentare.

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