Per combattere la mafia bisogna parlarne

L'esortazione del giudice Paolo Borsellino che risale al 1992 è stata accolta dal fratello Salvatore che gira l'Italia per continuare a tenere acceso il dibattito e l'attenzione. Anche per non dimenticare quelli che hanno perso la vita nella battaglia

 


L’esortazione del giudice Paolo Borsellino che risale al 1992 è stata accolta dal fratello Salvatore che gira l’Italia per continuare a tenere acceso il dibattito e l’attenzione. Anche per non dimenticare quelli che hanno perso la vita nella battaglia

 

 

«Parlate della mafia. Parlatene alla radio, in televisione, sui giornali. Però parlatene». Questa era l’esortazione di Paolo Borsellino, il giudice ucciso in via D’Amelio il 19 luglio 1992. Ora il fratello, Salvatore Borsellino, non si stanca di girare l’Italia per tenere sveglie le coscienze: il 24 ottobre l’immensa sala dell’oratorio san Mauro di Bernareggio non è riuscita a contenere le centinaia di persone che sono giunte ad ascoltarlo. L’incontro è stato organizzato da Davide Camanzo, ventunenne sulbiatese, responsabile, assieme alla fidanzata, Barbara Colombo, ventitreenne bernareggese, della compagnia teatrale «Cam’on Babi» di Villanova. Tra il pubblico intervenuto c’erano anche tantissimi giovani, persone che nel 1992 erano poco più che bambini, ma che ricordano le madri piangere nel sentire la notizia degli omicidi dei due magistrati. Perchè così tanti giovani? Ci hanno risposto che venire ad ascoltare una testimonianza diretta è l’unico modo per saper la verità, per saper perchè sono accaduti determinati fatti in Italia. «Non crediamo più nei telegiornali o nella carta stampata nazionale – hanno affermato – Scrivono solo quello che voglio, scrivo sotto dettatura di lobby di potere di destra e di sinistra. Noi ci documentiamo in internet, nella rete ci sono numerose testimonianze, video interviste, siti internet, che portano sì tesi differenti, ma che permettono di farci liberamente un’idea propria di cosa è accaduto. Solo in internet o ascoltando testimonianze dirette si può arrivare alla verità».

Assieme a Salvatore Borsellino a lasciare la sua testimonianza c’era anche Benny Calasanzio, a cui la mafia ha ucciso sempre nel 1992 sia lo zio, Paolo Borsellino (omonimo del giudice, ndr) e otto mesi più tardi il nonno, Giuseppe. La loro unica colpa è di non aver ceduto alle minacce della criminalità organizzata, mentre con sacrifici tentavano in quegli anni di avviare una piccola azienda edile. «Il tempo per piangere i morti è terminato da tempo – ha affermato Benny, ora 23enne e giornalista – vengo a raccontarvi la mia storia, la storia di una famiglia straziata dagli attacchi della mafia non per farvi commuovere, ma per farvi indignare, indignare di vivere in uno Stato che fino ad oggi ha fatto ben poco per fermare la malavita, per farvi arrabbiare quando tra i candidati politi ci sono persone condannate per mafia o per altri crimini». (per approfondimenti www.bennycalasanzio.blogspot.com). L’eroismo non è l’omertà, ma avere il coraggio di lottare contro un sistema corrotto a tutti livelli, combattere il sistema delle raccomandazioni, del clientelarismo e delle tangenti. «Quando il 19 luglio 1992 la bomba dilaniò i corpi degli uomini della scorta, Emanuela Loi, Walter Cosina, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina ed Agostino Catalano e quello di Paolo Borsellino, il giudice era  57 giorni che sapeva che sarebbe stato ucciso, diceva di non avere tempo e aveva ragione – così esordisce il fratello nel raccontare l’ultimo giorno di vita di uno degli "eroi d’Italia" – Io ero a Milano quel giorno e ci misi quattro ore a sapere cosa era successo, mentre, da indagini fatte sulle telefonate partite dalla rocca dove fu azionato il detonatore, coloro che diedero l’ordine ricevettero in 140 secondi la telefonata che annunciava la morte di Paolo Borsellino. In via D’Amelio non avrebbero dovuto esserci automobili parcheggiate, ma paradossalmente la via dove tre volte la settimana mio fratello andava regolarmente a trovare nostra madre, non era considerata un obiettivo sensibile. Ancora dopo sedici anni non si sanno i nomi dei mandanti, forse perché, come disse Leonardo Sciascia, lo Stato non può giudicare se stesso».

In quei giorni Paolo Borsellino stava ascoltando le testimonianze di pentiti molto importanti per le informazioni che rivelavano, in particolare sulla presunta collusione tra lo Stato e la mafia, tra l’antistato e la mafia. Il giorno dell’omicidio misteriosamente un uomo si avvicina alla macchina blindata e sottrae la borsa di cuoio contente i documenti del magistrato. La borsa fu ritrovata, ma priva dell’agenda rossa, quell’agenda che Borsellino usava per scrivere i suoi appunti durante gli interrogatori. Chi è in possesso di quell’agenda? Che utilizzo ne fa? Forse è utilizzata per ricattare l’intera classe dirigente italiana? Chi ha ucciso Paolo Borsellino lo ha fatto per impossessarsi di quelle informazioni? Queste le domande a cui Salvatore Borsellino cerca da anni una risposta.

Domande che alimentano il senso di sfiducia della gente verso lo Stato, e verso coloro che hanno utilizzato metodi più illeciti che leciti per assicurasi il potere. (per ulteriori approfondimenti www.19luglio1992.com).

 

 

 

 

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