Rassegma stampa del 8 marzo – nazionale

L'operazione Achille e l'incognita pachistana
Renzo Guolo su la Repubblica dell'8 marzo

L'offensiva del Polo e le spinte nell'Unione
Massimo Franco sul Corriere della Sera dell'8 marzo

Sicurezza sulle strade, approvato il «piano Bianchi»
Redazione de l'Unità dell'8 marzo

La CEI di Bagnasco (e Bertone)
Franco Garelli su La Stampa del 7 marzo

"Senza fretta ma la legge va fatta"
Concita De Gregorio su la Repubblica del 7 marzo


L'operazione Achille e l'incognita pachistana
Renzo Guolo su la Repubblica dell'8 marzo

L'offensiva del Polo e le spinte nell'Unione
Massimo Franco sul Corriere della Sera dell'8 marzo

Sicurezza sulle strade, approvato il «piano Bianchi»
Redazione de l'Unità dell'8 marzo

La CEI di Bagnasco (e Bertone)
Franco Garelli su La Stampa del 7 marzo

"Senza fretta ma la legge va fatta"
Concita De Gregorio su la Repubblica del 7 marzo

 

 

L'operazione Achille e l'incognita pachistana
Renzo Guolo su la Repubblica dell'8 marzo

Le forze della Nato lanciano la più massiccia operazione dall'autunno 2001, quando "le relazioni pericolose" tra il mullah Omar e Osama bin Laden sfociarono nell'invasione americana e nel collasso dell'emirato dell'Afghanistan. L'obiettivo è impedire che "gli studenti di teologia" si rafforzino troppo e prendano l'iniziativa; tagliando le retrovie logistiche che conducono al poroso confine pachistano del Nordovest, dove la solidarietà pashtun trasforma la frontiera in un luogo della mente dei geografi occidentali più che una barriera capace di fermare la solidarietà etnica transfrontaliera. Ancora una volta, dunque, il problema afgano si chiama pashtun, l'etnia maggioritaria nelle regioni di confine tra i due paesi.

I Taliban sono pashtun; i pashtun sono la maggioranza degli afgani; le popolazioni del Nordovest pachistano sono pashtun. Questa "equazione senza incognite" spiega molto del rafforzamento dei Taliban nei cinque anni trascorsi dalla caduta di Kandahar. In realtà i Taliban non sono mai stati sconfitti militarmente; sono solo ripiegati, trovando rifugio nel loro ambiente naturale: una società in cui la religione è soprattutto tradizione locale e l'appartenenza etnica crea una dimensione irriducibile. I pashtun non hanno mai accettato che la caduta del mullah Omar abbia premiato gli hazara, i tagiki, i popoli del Nord e i "traditori" di Kabul, membri della propria etnia che si sono schierati con gli occidentali.

Sino alla scorsa estate i soldati della Nato non si sono mai spinti al Sud, nelle province di Helmand e Kandahar. Penetrandovi hanno incontrato il vuoto, come spesso accade agli eserciti occidentali in Oriente, dove la terra conta ancora più dell'aria. Il nemico lì pare dissolto e in realtà si è solo mimetizzato. I seguaci del "comandante dei credenti" Omar, sono nelle montagne circostanti o, più semplicemente tra la gente del posto: la loro gente. Mossa che li occulta anche gli occhiuti droni.

Di volta in volta nell'arco di una giornata i Taliban sono contadini, artigiani, informatori, mujahiddin. Un ambiente ostile per chi occupa, cementato dalle reti familiari e dalla consapevolezza della popolazione che prima o poi i soldati occidentali se ne andranno. Stanchi di presidiare il vuoto appena conquistato. Un consenso, quello dei Taliban costruito sull'uso politico dell'oppio. Come i "signori della guerra" hanno lasciato coltivare il papavero. Il "fiore rosso" non è più, come ai tempi dell'Ashura di Kandahar, il fiore del male, ma il mezzo di sussistenza per i contadini decisi a opporsi alla volontà eradicatrice della missione Isaf. In questi anni le forze speciali occidentali hanno cercato di distruggere le piantagioni, generando grande malcontento tra i contadini.

 
Ma l'esito di questa sorta di spedizione punitiva non è scontato. Il "generale inverno" ha permesso agli uomini guidati dal comandante Dadullah di riorganizzarsi. Lungo l'asse Quetta-Kandahar-Laskar Gah sono penetrati mezzi e uomini. Tra essi molti jihadisti stranieri, gli "arabi", vecchi e nuovi militanti decisi a sacrificare le loro vite nel "martirio" suicida contro gli infedeli. Una pratica, quella degli attentati suicidi sino a poco tempo fa estranea agli afgani ma che ora li ha contaminati, aumentando il rischio per le truppe Isaf.

L'obiettivo Nato è quello di ristabilire la sicurezza nel Sud, ovvero liberare le zone controllate dai nemici di Karzai. Ciò sarà possibile solo se le truppe occidentali resteranno nel territorio occupato: per questo necessitano di uomini prima ancora che di mezzi. Una presenza permanente li espone però a seri rischi. Il problema del rapporto con la popolazione diventa una componente fondamentale. Torna dunque in primo piano il problema che fare dell'oppio. Oggi la coalizione occidentale non ha i mezzi per offrire un'alternativa alla sussistenza dei contadini che coltivano il papavero.

Resta poi l'ombra del "grande fratello pakistano". A Islamabad un Afghanistan instabile non è troppo sgradito. Permette al Pakistan di mantenere centralità strategica nella regione; di contrapporre la fratellanza sunnita al rinato fantasma del nazionalismo sciita-iraniano. Consente di evitare che India e Cina chiudano i loro giochi sulla scacchiera pachistana.
Nessuna offensiva militare potrà avere successo se l'ambiguità pakistana continuerà ad aleggiare nella regione. La strada di Helmand passa per Islamabad più che per Kabul.

 

L'offensiva del Polo e le spinte nell'Unione
Massimo Franco sul Corriere della Sera dell'8 marzo

Palazzo Chigi ostenta una certa dose di tranquillità. Vede l'estrema sinistra spaventata da una nuova bocciatura del governo sull'Afghanistan; e dunque decisa a confermare il rifinanziamento della missione anche nella votazione del 27 marzo al Senato. Ufficiosamente, dunque, Romano Prodi si prepara ad incassare il «sì» in due tappe del Parlamento: magari con una maggioranza quasi plebiscitaria, che archivierebbe mesi di scontro con l'opposizione. Il centrodestra fatica a votare contro un impegno che tocca il cuore dei rapporti con Nato e USA. Qualcuno prevede pressioni britanniche per avere più truppe. Al Consiglio europeo a Bruxelles, Tony Blair ha già fatto sapere che oggi chiederà altri soldati a Germania, Francia e Italia. Ma anche questa richiesta non sembra spaventare il premier italiano. E di certo non modificherà una strategia che non prevede l'aumento del contingente. L'insistenza con la quale il governo avverte che non cadrà anche se la missione sarà confermata col voto del centrodestra, tenta di schivare la polemica. Un filo d'allarme, tuttavia, serpeggia nell'Unione. L'antagonismo pacifista registra l'escalation in Afghanistan con preoccupazione: a cominciare dal presidente della Camera, Fausto Bertinotti. E la conclusione è un invito sempre più pressante a preparare il ritiro. Quando i Verdi dicono che occorre superare «il ricatto del decreto», confermano la propria impotenza; e insieme minacciano che il loro possa essere l'ultimo «sì». Il segretario dei ds, Piero Fassino, avverte l'insidia: per questo definisce «strumentale» la richiesta berlusconiana di una crisi. L'impressione è che il centrodestra voglia provocare la reazione dell'«antagonismo». Spera nella quasi impossibilità dell'Unione di confermarsi maggioranza sull'Afghanistan a Palazzo Madama. E ricorda l'invito che il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, fece a Prodi rinviandolo alle Camere dopo la crisi: quello di poter contrare sul «sì» di 158 senatori eletti. Per questo, la ex Cdl sostiene che il presidente del Consiglio dovrebbe dimettersi se il provvedimento passerà con i voti decisivi di senatori a vita e opposizione. Per quanto delicato sul piano politico, però, si tratta di un dettaglio senza rilevanza costituzionale. Per questo è improbabile che il Quirinale avalli l'ipotesi di una crisi di governo di fronte ad un «sì» bipartisan.

Rimane da vedere l'impatto che avranno gli appelli del pacifismo radicale a votare «no». Non è escluso che per qualcuno, nell'estrema sinistra, un peggioramento in Afghanistan possa giustificare un nuovo scossone del governo.

 

Sicurezza sulle strade, approvato il «piano Bianchi»
Redazione de l'Unità dell'8 marzo

Quindici «misure rapide», a partire da multe-shock: fino a 12mila euro, ma anche l'arresto fino a sei mesi, per la guida sotto l'effetto di alcol o droga. Così il ministro dei Trasporti, Alessandro Bianchi, ha voluto imprimere una svolta sul fronte della sicurezza stradale, superando «il sistema delle azioni impiegato sino a oggi» che «si è rivelato insufficiente o, come nel caso della patente a punti, di breve momento».
Il Consiglio dei Ministri ha approvato il suo piano sintetizzato nelle 10 pagine di un atto di indirizzo. Con misure da con misure da varare immediatamente e attuare al massimo entro un anno, parte di un piano più ampio e articolati, cambieranno le multe, ma anche le patenti ed il meccanismo dei punti. Presto, già per il prossimo Consiglio dei ministri, le misure proposte verranno tradotte nel testo del primo decreto legge.
Bianchi ha presentato a Palazzo Chigi un quadro allarmante: un tasso di mortalità «al di sopra della media Ue» (9,1 morti ogni 100mila abitanti), e un costo sociale pari al 2,5% del Pil, 30,6 miliardi l'anno. Il ministro ha proposto, si legge nel documento, «modifiche strutturali di strategie e azioni», e «nuovi strumenti». L'obiettivo è «una decisa accelerazione» del trend, degli ultimi anni, di riduzione delle vittime della strada. L'inasprimento delle sanzioni è tra le misure di immediata attuazione: «'Proporzionalmente al rischio» aumenterà la durata di sospensione della patente, si arriverà alla confisca del veicolo, ed a nuove «forme di pena alternative», come l'obbligo a svolgere servizi di utilità sociale, ed in particolare assistenza a vittime di incidenti stradali che siano rimasti inabili.
Per le patenti verrà introdotto un diverso «principio di gradualità», come previsto dalle direttive Ue, «in modo da consentire l'uso dei mezzi di trasporto più potenti e impegnativi attraverso patenti di guida alle quali si può accedere solo attraverso esami progressivamente più impegnativi e dopo un prefissato periodo di esperienza nel livello precedente». Cambia anche la tabella dei punti, con una focalizzazione «sui comportamenti di guida a elevato rischio», ma anche rivedendo i meccanismi di riassegnazione, e prevedendo controlli più rigidi.
Più severità anche per i giovanissimi, con l'introduzione dei punti per la patente «AM» per ciclomotori e minicar. E per guidare le «macchinette», così le chiama il ministro (nel documento «quadricicli leggeri»), è previsto un innalzamento dell'età minima a 16 anni. Bianchi vuole anche una «cura d'urto» per «la messa in sicurezza delle dodici strade più pericolose» di Italia, un «piano di azione dedicato» alla sicurezza per «i conducenti dei veicoli a due ruote», un «progetto città sicure» per le aree urbane.
Misure ad hoc, coinvolgendo i mobility manager delle imprese, anche per ridurre gli incidenti che «accadono a lavoratori che vanno o tornano dal lavoro»: le statistiche indicano che sono quelli che determinano «la maggior parte delle vittime». Si pensa a «un premio annuale per le amministrazioni locali che hanno ottenuto i migliori risultati», e ad un monitoraggio «per impegnare nel modo più efficace le risorse finanziarie». Tutto in un quadro di programmazione, con progetti focalizzati anche sulla formazione, e iniziative di informazione e sensibilizzazione.
Il Governo vuole agire a tutto campo, dai limiti di velocità alla segnaletica stradale, anche perchè sia chiaro che l'obiettivo è «fare sicurezza» e non «fare cassa». Vuole «assicurare la certezza della sanzione», ma anche disincentivare i «comportamenti opportunistici da parte di alcune amministrazioni locali che utilizzano il codice solo per aumentare gli incassi delle sanzioni pecuniarie».

 

La CEI di Bagnasco (e Bertone)
Franco Garelli su La Stampa del 7 marzo

Si è dunque risolto il rebus della successione del cardinale Ruini alla presidenza della Cei, con la nomina da parte del Papa – che avverrà oggi – di monsignor Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova. Quella italiana è la più grande conferenza episcopale nazionale, con circa 250 vescovi attivi sul territorio e altrettanti che ricoprono incarichi nella curia vaticana o già collocati in pensione. I vescovi italiani rappresentano un terzo di tutti i vescovi cattolici d'Europa (e l'11 per cento dell'insieme di tutti i vescovi del globo) e proprio il gran peso che essi esercitano nell'episcopato del mondo si riflette sull'importanza di chi è chiamato a guidarli.

Il carattere mite e costruttivo di monsignor Bagnasco è emerso anche negli altri incarichi che è stato chiamato a ricoprire. Chi l'ha seguito di più, gli riconosce di aver dato prova in varie circostanze di un sano realismo istituzionale, cui si accompagna la propensione al dialogo e l'assenza di interventismo politico. Da molti anni è presidente del quotidiano cattolico Avvenire, ruolo che ha sempre interpretato in modo sobrio, nonostante le molte tensioni identitarie che coinvolgono di questi tempi la presenza dei cattolici nel Paese. Anche come "vescovo delle stellette", come cappellano d'Italia, poteva essere al centro di non poche polemiche, in una stagione in cui non solo nella sinistra radicale, ma anche in molti gruppi cattolici di base, cresce l'insofferenza per l'impegno in aree di guerra e di conflitto.

Proprio il fatto di essere un uomo di mediazione può essere stato la ragione che ha convinto il Papa a orientarsi su una figura ecclesiale, che fino a poco tempo fa non rientrava assolutamente nei pronostici. Per molti mesi, come si sa, il nome più accreditato era quello del cardinale Scola, patriarca di Venezia, dotato di due forti assi nella manica: quello di aver familiarità con il Papa, per una conoscenza di lungo corso; e l'essere un uomo di ampia cultura, forse il più adatto per continuare quel progetto culturale con cui il cardinale Ruini ha dato ai cattolici italiani quell'unità che avevano perso con la fine del partito cristiano. Sennonché Scola, legato a Comunione e Liberazione, non sembra esprimere il sentimento prevalente nell'episcopato italiano, che continua a riconoscersi più nello stile dell'Azione cattolica che in movimenti dalla presenza più aggressiva. Da questo punto di vista, monsignor Bagnasco esprime indubbiamente un maggior collegamento con la base dei vescovi e del cattolicesimo italiano.

Oltre a ciò, in questa nomina sembra aver giocato un ruolo rilevante il cardinale Bertone, che già aveva voluto Bagnasco come suo successore a Genova. Con questa scelta, il Segretario di Stato Vaticano conferma il suo coinvolgimento nelle dinamiche della Chiesa italiana e la sua volontà di seguire a fondo lo sviluppo dei rapporti tra Stato e Chiesa nel Paese. Ma la figura del nuovo presidente dei Vescovi è anche vicina al cardinale Ruini, di cui – come già è emerso nelle dichiarazioni di questi giorni – continuerà la politica e l'impegno della Chiesa sui temi della vita e della famiglia. Non lontano da entrambi, Bagnasco rappresenta dunque una soluzione di mediazione e di compromesso.

C'è da segnalare, infine, il ruolo centrale che sta avendo la diocesi di Genova, diventata improvvisamente il trampolino di lancio dei vescovi che contano nella Chiesa, italiana e non. Dopo anni di stagnazione, la città si è ridestata non soltanto da un punto di vista urbanistico e produttivo, ma anche ecclesiale. In pochi anni, a Genova, si sono succeduti sia il cardinale Tettamanzi (poi andato a Milano a sostituire il cardinale Martini), sia il cardinale Bertone, approdato in Segreteria di Stato. Genova sembra portare bene – in termini di carriera ecclesiastica – anche al nuovo vescovo, da poco subentrato a Bertone e che oggi diventa Presidente dei vescovi d'Italia. Chi ha ambizioni di carriera, in tutti i campi, è avvertito. Prendere la residenza a Genova può essere oggi di buon auspicio.

 

"Senza fretta ma la legge va fatta"
Concita De Gregorio su la Repubblica del 7 marzo

ROMA – Bisogna difendere la legge sui Dico e "per difenderla non bisogna avere fretta". La fretta, in casi come questo, "può essere il peggiore dei nemici: proprio perché regolare i diritti e i doveri di chi convive risponde ad un´esigenza radicata e diffusa nella nostra società – diffusa a prescindere dalle convinzioni politiche e a volte persino dal credo religioso – bisogna assolutamente sottrarla allo scontro ideologico: non farne il pretesto per una conta, per vedere chi vince e chi perde perché così ci perdono tutti". Proteggere i Dico dal furore della battaglia politica, allentare la tensione e poi se necessario – a percorso concluso – ricorrere al voto segreto. Flavia Franzoni Prodi parla, come sempre precisa, "da cittadina". "Tra l´altro non ne ho davvero ancora parlato a casa, non c´è stato modo né tempo". La crisi di governo, si capisce. "Sono le mie opinioni private: ne discuto, questo sì, con le ragazze del mio corso di laurea". E´ docente al corso per assistenti sociali, a Bologna. Le ragazze le rimandano lo specchio di una realtà diffusa. "Mi fermo a lungo ad ascoltarle. Sento tante storie di unioni solide: arrivano i figli, si fa il mutuo per la casa. Mi è capitato di chiedere loro, davvero curiosa: ma un mutuo di vent´anni fatto insieme non è impegnativo almeno quanto un matrimonio diciamo pure civile? In cosa consiste la differenza in termini di responsabilità e di impegno reciproco?". La risposta? "Non ne ricordo di convincenti – sorriso – o almeno ora mi sfuggono".

Franzoni: "La questione delle unioni omosessuali ha preso il sopravvento e connotato il dibattito quando si tratta invece di una porzione minoritaria del problema. Minoritaria proprio in termini quantitativi: la stragrande maggioranza di individui interessata a che siano regolati i loro doveri e tutelari i loro diritti è composta da persone che vivono insieme, per scelta o per necessità, fuori dal matrimonio. La realtà è questa, non si può ignorare, ed è ugualmente diffusa tra elettori di tutti gli schieramenti. Quindi, in pratica: bisogna che in parlamento si avvii un dibattito esteso e approfondito che mostri la realtà per quella che è. Bisogna che sia chiaro che si sta parlando di problemi di tutti o di molti, non di ideologie. Bisogna fare in modo che questa legge cammini e per farlo bisogna evitare, io credo, di andare allo scontro frontale in cui si vince o si perde per un voto. Anche perché in questo caso perdere per un voto vorrebbe dire accantonare il tema per chissà quanto tempo. Anni forse. Allora ecco: conviene procedere con apertura e ascolto. Prendere il tempo che serve". Ascoltare anche chi dice che i Dico non sono la questione prioritaria del paese? "Certo, tutti abbiamo i nostri terminali e anch´io ricevo molte lettere. La questione delle pensioni, per esempio, è da molti vissuta come più importante e posso capirlo: intendo che chi è anziano e vive in condizioni di disagio grave stenti a riconoscere le ragioni di un governo che gli antepone le unioni di fatto. A ciascuno è dovuta una risposta appropriata". Questo tempo, questa pazienza non potrebbero tradursi in un´archiviazione dei Dico? "Non credo proprio e certamente non me lo auguro. Guardi, a dispetto dei momenti di sconforto io sono molto ottimista sulla capacità della politica di entrare in sintonia con il Paese: non dubito affatto che i parlamentari di tutti gli schieramenti messi in condizione di conoscere le richieste reali che salgono dai cittadini sappiano dare una risposta appropriata, fuori dalle logiche di appartenenza. Si ascoltino le associazioni, si assumano i dati, si facciano le audizioni che ci sono da fare e si decida in coscienza. Quando si parla di diritti e di doveri individuali, di scelte che riguardano le persone nell´intimo si entra nella sfera della coscienza, è evidente. E sulle questioni di coscienza è sempre auspicabile il voto segreto, non le pare? Il voto segreto, in certi casi, è davvero una grande risorsa per la democrazia".

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