Cultura

Prigionieri “privilegiati”, la storia di 5 muggioresi nei campi Usa

Aldo Ramazzotti, nipote di uno degli internati negli Stati Uniti, ha ricostruito la vita dei suoi concittadini grazie all'Archivio militare Usa. Il 22 aprile sarà inaugurata una mostra storico fotografica a Muggiò.

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In cinque mesi di lavoro certosino ha ricostruito la vita da prigionieri di guerra di cinque muggioresi, uno dei quali suo zio. Aldo Ramazzotti, 71 anni, ex tranviere Atm, è vice presidente dell’associazione muggiuorese Artè. Assieme alla presidente, Temple Maria Franciosi, e alla moglie Luisa, lo scorso inverno ha affrontato un viaggio indietro nel tempo fino al 1943, quando 51 mila italiani furono deportati negli Stati Uniti. Deportati e rinchiusi in campi di concentramento sparsi in tutti gli stati, Hawaii comprese.

Quegli italiani furono prigionieri “privilegiati”, con la possibilità di mangiare due volte al giorno, di lavare i vestiti una volta la settimana e di vedere per primi una società avanti anni rispetto a quella cui erano abituati. I nomi dei cinque muggiresi sono Mosè Ramazotti, caporal maggiore, Guido Riccardi, caporale autiere, e i tre soldati semplici Giuseppe Merati, Amadio Naboni e Alfredo Nobili e le loro storie saranno oggetto di una mostra storico – fotografica in programma a Muggiò dal 22 aprile al 1 maggio a Villa Casati (sala Ovale) nell’ambito delle celebrazioni per il 25 Aprile.

Ramazzotti è stato aiutato dall’ambasciatore in pensione, Giuseppe Cassini, e dallo storico Flavio Giovanni Conti, autore del libro “I prigionieri italiani negli Stati Uniti”. I cinque muggiresti avevano poco meno di 30 anni quando furono catturati in Africa, e tutti firmarono il patto di cooperazione con gli Usa, accettando così di lavorare per il governo al posto dei ragazzi americani impegnati al fronte. E qualcuno, come Naboni, finita la guerra, decise di restare trovando lavoro come “milky man”, l’addetto alla distribuzione del latte, mentre Riccardi sposò un’americana.

”La ricerca è iniziata con una telefonata del sindaco di Vimodrone, Antonio Brescianini – spiega Ramazzotti -. Suo padre era stato rinchiuso nel campo di Letterkenney e mi disse che probabilmente fra i prigionieri c’era anche un mio parente”. Nel giro di pochi giorni sono stati così allacciati i contatti con le Ambasciate e con l’Archivio Usa. I primi documenti non hanno tardato ad arrivare e con loro anche la sorpresa di quanto fossero dettagliati e ben conservati. “Mio zio era un ottimo falegname – prosegue Ramazzotti -, ma non mi aspettavo certo di scoprire che fosse stato uno dei 12 uomini ad avere contributo alla costruzione della chiesa di Letterkenny, proclamata monumento nazionale nel 2015″.

La documentazione su Mosè Ramazzotti comprende foto, schede, il patto di collaborazione tradotto in italiano e persino una nota sanitaria dove venne registrata una distorsione alla caviglia mentre il 15 marzo del 1945 giocava a pallone sul campo di atletica. Come quasi tutti gli altri italiani prigionieri negli Usa, Mosè Ramazzotti era un privilegiato: mangiava e usciva regolarmente, lavava la biancheria una volta la settimana, intratteneva rapporti con altre famiglie di italiani e di americani ed ebbe modo di visitare anche New York. Ciò che più fa riflettere è l’opportunità che ebbero questi uomini di vedere per primi il “nuovo mondo”. Negli Usa erano già diffuse auto, televisioni e lavatrici. “Me lo immagino mio zio Mosè – sottolinea Aldo Ramazzotti -,  abituato a viaggiare a dorso di mulo, proiettato all’improvviso in una realtà completamente diversa. Tornò in Italia alla fine del ’45, ma ripartì subito dopo per Parigi. Dopo quello che aveva visto e vissuto negli Stati Uniti, una realtà come quelli di Muggiò gli stava stretta”.

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