Cultura

Arte e potere

Come scrisse in modo icastico il grande storico Jacob Burckhardt, la caratteristica che si riscontra comunemente nel despota è la passione per il colossale.

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Come scrisse in modo icastico il grande storico Jacob Burckhardt, la caratteristica che si riscontra comunemente nel despota è la passione per il colossale. Ed è proprio il “colossale” lo stile che accomuna i regimi dispostici pur a diverse latitudini. Il gigantismo delle statue di Lenin e Stalin, in pieno comunismo, fa il paio con le magniloquenti architetture del Nazismo. E non a caso è proprio l’architettura il terreno dove si misura l’intensità dello stile che un regime vuole imporre ai propri sudditi, sia perché in un’epoca pre-televisiva gli edifici e le installazioni pubbliche potevano contare su uno share molto vasto precluso alle arti minori, così da influenzare il massimo numero di persone, sia perché lo sforzo di edificazione poteva ben simboleggiare la grandezza e la ricchezza del “nuovo ordine”.

Più in generale, è facile comprendere come il sottile e forte legame tra arte e propaganda esista da sempre, tanto che ogni ricco e nobile, in veste di mecenate, tendeva a manifestare il proprio potere e la propria ricchezza attraverso l’arte.

N¸rnberg, NSDAP-Reichsparteitag, SA und SS-AppellMa è nel Novecento, l’epoca dei totalitarismi, che questo connubio si sperimenta al massimo grado e l’arte si piega ad essere ancella del potere: per modi diversi e con sensibilità diverse, il Fascismo, il Nazismo, il Comunismo usarono gli artisti, li condannarono, li asservirono.

Così il Duce lasciò liberi gli artisti di sperimentare la modernità e accettò di pari grado le ansie avanguardiste dei Futuristi e il “ritorno all’ordine” capeggiato dalla critica – e sua amante – Margherita Sarfatti; e non cambiò idea sull’amico Sironi, dapprima ardente futurista e poi solido interprete della tradizione rinnovata sui modelli del Quattrocento, così come lo racconta con precisione Elena Pontiggia nella biografia Mario Sironi. La grandezza dell’arte, le tragedie della storia.

Nell’Urss invece, in piena fede marxista e considerando la cultura una sovrastruttura dell’economia, a colpi di gulag si convinsero i pittori modernisti a tornare al realismo figurativo mettendosi al servizio del proletario che doveva essere accompagnato nella sua crescita, non sobillato da modelli perversi.

In Germania, infine, l’arte della modernità, cosiddetta “degenerata”, fu osteggiata, esposta al pubblico ludibrio (nella famosa mostra itinerante del 1937), svenduta, infine bruciata in pubblica piazza.

Se dunque è scoperto il gioco tra arte e potere, e di ogni dittatore o despota si può dire del suo interesse o disinteresse per l’arte come strumento di consenso e di governo, tra tutti è Hitler quello che con la cultura ebbe il rapporto più stretto e perverso: un tema così poco indagato da giustificare un saggio ponderoso, per certi versi spigoloso e in controtendenza, definito dal New York Times “tra gli studi fondamentali sul nazismo”. Stiamo parlando del libro di Frederic Spotts, Hitler e il potere dell’estetica, in cui si documenta della duplice natura di Hitler, “artista ipergentile” e “maniaco omicida”, e di quanto “il suo interesse per l’arte fu profondo come il suo razzismo” e “ignorare l’uno è una distorsione altrettanto grave che tralasciare l’altro”.

D’altronde, difficile ammetterlo anche dopo un secolo, il talento estetico di Hitler contribuisce a spiegare la sua misteriosa presa sul popolo tedesco. Quello che Stalin ottenne con il terrore, Hitler l’ottenne con la seduzione di un nuovo modo di far politica, con una combinazione di simboli, miti, riti, spettacoli, atteggiamenti teatrali, tali da soggiogare le grandi masse. Pittore mancato e frustrato, buon conoscitore della musica, amante del teatro, esperto di architettura, uno che aveva un’opinione su tutto, Hitler è riassunto bene dalla frase di Albert Speer, che pur fu l’architetto di regime e a lui devoto: “era proprio un genio del dilettantismo”. Eppure, dilettantismo a parte, Thomas Mann notò per primo che Hitler fu essenzialmente un artista e che proprio grazie alla sua natura estetica riuscì a guadagnarsi quei poteri magici con i quali rese prigionieri di un incantesimo la Germania e una parte dell’Europa: di qui il paradosso di un uomo che aspirava ad essere artista ma non aveva talento, e che odiava la politica pur essendo un genio (del male) politico.

E a Spotts ci vogliono 400 pagine dense e fitte, piene di sorprese e dettagli, per districarsi nell’enigma di un dittatore sanguinario che quando arrivò al potere, nel 1933, come prima cosa fece costruire non un monumento al proprio trionfo personale bensì una gigantesca galleria d’arte e che, fino all’ultimo giorno prima della sconfitta, nel bunker di Berlino si dilungava a disquisire della riforma del teatro tedesco, di film e di letteratura. Hitler voleva rimodellare la Germania dal punto di vista spirituale e architettonico, contrastare la decadenza dell’Occidente ariano e delle arti in generale, e mentre studiava la soluzione finale per gli ebrei si immalinconiva di fronte alla bellezza di un capolavoro di Tiziano, o era disposto a pagare 1milione e 625mila marchi per un quadro di Vermeer: una sorta di rompicapo.

 

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