Cultura

Arte programmata, arte condivisa

L’Arte programmata, che oggi è tornata in auge nelle aste raggiungendo quotazioni impensabili fino a poco tempo fa, è la definizione sotto la quale si ricomprende un corpo di opere di un gruppo di artisti italiani attivi tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta.

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L’Arte programmata – che oggi è tornata in auge nelle aste raggiungendo quotazioni impensabili fino a poco tempo fa – è la definizione sotto la quale si ricomprende un corpo di opere di un gruppo di artisti italiani attivi tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta. La definizione fu inventata da Bruno Munari e Umberto Eco nel dicembre del 1961 e utilizzata all’interno dell’Almanacco Letterario Bompiani del 1962 che era dedicato alle implicazioni e applicazioni letterarie e morali dei nuovi calcolatori elettronici. Il termine fu poi utilizzato, sempre nel 1962, per la mostra promossa presso il negozio Olivetti, grazie anche alla lungimiranza di Adriano Olivetti, dove furono esposti i lavori di Munari, Enzo Mari e degli artisti del Gruppo T e del Gruppo N.

Il Gruppo T con Luciano Zanoni alla Galleria Pater di Milano nel 1960

Il Gruppo T con Luciano Zanoni alla Galleria Pater di Milano nel 1960

In realtà, tutto inizia nel 1959 quando quattro artisti poco più che ventenni (Giovanni Anceschi 1939, Davide Boriani 1936, Gianni Colombo 1937, Gabriele Devecchi 1936) espongono in una collettiva alla Galleria Pater di Milano le loro opere ancora informali. Di lì a poco costituiranno il Gruppo T (t come tempo) a cui poi aderirà Grazia Varisco, e organizzeranno, in pochi anni, una serie di mostre dal titolo “Miriorama” (dalla prima alla numero 14) in cui verranno presentate le loro “opere in divenire”. Esposizioni che avrebbero rinnovato il panorama delle avanguardie, aggiungendo un ulteriore fondamentale tassello. Così lo racconta bene, il volume collettaneo Arte ri-programmata nel quale viene proposta una riattualizzazione delle tematiche legate a quel particolare contesto.

Ma cos’è l’Arte programmata? Per capirlo ci aiuta lo storico Marco Meneguzzo che approfondisce la poetica del movimento e i risultati in due testi illuminanti: Programmare l’arte. Olivetti e le neoavanguardie cinetiche e Arte programmata cinquant’anni dopo. Innanzitutto è necessario distinguere tra Arte programmata e Arte cinetica: se la seconda definisce una categoria più ampia in cui si ricomprendono anche movimenti e artisti non italiani le cui opere hanno a che fare generalmente con il movimento (dell’opera stessa o del fruitore nell’atto di coglierla, si pensi alla Op(tical) Art), la prima identifica solo e unicamente quella branca italiana dell’Arte cinetica, maturata nei primi anni Sessanta, ben identificata come composizione degli artisti che ne fecero parte e come mostre svolte. E in cui l’idea di programmare un’opera – attraverso il movimento o qualsia altra soluzione visiva – spalanca nuovi territori linguistici anche dell’Arte cinetica, allargandone gli orizzonti e aggiornandone le possibilità.

Secondo, dobbiamo comprendere che l’interesse dell’epoca e attuale per questo tipo di arte non risiede assolutamente nello stupore tecnologico che promana dalle opere, i cui meccanismi primordiali sono elementari (soprattutto piccoli motori che imprimono il moto) e già all’epoca erano percepiti come tali, ma semmai nel carico propositivo che i lavori ancora suscitano, sia dal punto di vista estetico/relazionale che ideologico. A partire dalla fiducia (utopica) nel progetto contro la casualità, nella programmazione contro l’accidentalità, con l’idea di un’arte davvero a disposizione di tutti, priva di qualsiasi ambizione simbolica e perciò comprensibile in modo immediato a chiunque, un’arte non toccata dalle contingenze storiche, un’arte democratica che con la sua riproducibilità/serialità industriale poteva essere acquistata da un pubblico vasto, un’opera aperta che lascia libero lo spettatore di interagire e di rapportarsi con essa in modo non prestabilito, e il cui facitore non è più l’artista con tutti i suoi vezzi e tic e la sua egoica individualità, ma più modestamente l’operatore estetico che, appunto, mediante la programmazione può misurare il sentimento ed evocarlo, quasi in modo meccanico.

Una missione profetica, alla luce del progresso scientifico e soprattutto del nuovo mondo digitale, alla cui base c’è, guarda caso, la programmazione e il suo vate è il programmatore.

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