CGIL: le novità del decreto legislativo in tema di contratti di lavoro

Dall'ufficio vertenze legali della CGIL un chiarimento sulle novità introdotte dal decreto legislativo che disciplina e semplificata le tipologie contrattuali e dei rapporti di lavoro vigenti.

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Con l’entrata in vigore, il 25 giugno 2015, del  Decreto Legislativo n. 81 del 15 giugno 2015, è proseguita l’attuazione delle deleghe  contenute nella legge delega n. 183 del 10 dicembre 2014. Il decreto legislativo 81/2015 detta una disciplina organica e semplificata delle tipologie contrattuali e dei rapporti di lavoro vigenti nonché la revisione della disciplina delle mansioni,   abrogando le previgenti norme regolatrici delle diverse forme contrattuali. Secondo l’impegno assunto nella legge delega, con il riordino delle tipologie contrattuali il Governo avrebbe dovuto eliminare gran parte dei contratti parasubordinati per favorire la forma del contratto a tempo indeterminato. Si vedrà che solo alcuni di questi contratti sono stati eliminati (lavoro ripartito, associazione in partecipazione, contratto a progetto) confermandosi, invece, ancora ampia la possibilità di ricorrere a forme flessibili del rapporto di lavoro.

Ecco le novità introdotte dal decreto legislativo:

LE COLLABORAZIONI
Viene abrogata, dalla nuova disciplina, la forma del contratto di collaborazione a progetto e occasionale prevista dal D.lgs. 276/2003 nonché la disciplina dei contratti a partita IVA introdotta dalla legge Fornero. Vengono fatte salve, dalla norma, le COCOCO  che restano, però, prive delle tutele che erano state introdotte per le collaborazioni a progetto. Lo stesso può dirsi per le partite IVA che continuano ad esistere  senza le tutele che la legge Fornero aveva previsto e che consentivano di individuare mediante il meccanismo delle  presunzioni legali i rapporti di lavoro autonomo non genuini. L’art. 2 del D.Lgs. 81/2015 prevede che a partire dall’1.1.2016 la disciplina del rapporto di lavoro subordinato deve essere applicata anche ai rapporti di collaborazione che siano caratterizzati da una prestazione lavorativa esclusivamente personale e continuativa, sempre che le modalità di esecuzione della prestazione siano organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro. La predetta disposizione non trova applicazione nei seguenti casi: 1) alle collaborazioni disciplinate dai CCNL che devono prevedere specifiche discipline relative al trattamento economico e normativo in ragione delle particolari esigenze produttive ed organizzative del settore; 2) alle collaborazioni prestate nell’esercizio di professioni intellettuali con iscrizione agli albi professionali; 3) ai componenti degli organi di amministrazione e controllo delle società e dai partecipanti a collegi e commissioni; 4) alle collaborazioni rese a fini istituzionali in favore di associazioni e società sportive dilettantistiche. E’ prevista, inoltre, la possibilità per le parti di certificare presso le commissioni di certificazione la natura genuina del rapporto autonomo. La norma sembra congegnata per porre un freno alle collaborazioni coordinate e continuative caratterizzate dalla stabile e costante presenza del lavoratore presso gli uffici del committente identificando le caratteristiche che devono avere i rapporti di collaborazione per essere attratti nell’ambito del lavoro subordinato, individuando il criterio discretivo nel fatto che il committente organizzi le modalità di esecuzione “anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”.Spetterà alla futura giurisprudenza chiarire in che misura l’ingerenza del committente nell’esecuzione della prestazione determini o meno la subordinazione del rapporto lavorativo.   

STABILIZZAZIONI
La norma contempla un meccanismo transitorio di stabilizzazione per le collaborazioni già in corso e che presentino profili di illegittimità. La stabilizzazione riguarda i datori di lavoro privati e consiste in una sanatoria a favore di chi proceda dall’1.1.2016 all’assunzione con contratto a tempo indeterminato di lavoratori precedentemente utilizzati come autonomi (progetto, partita IVA). La stabilizzazione è subordinata a due condizioni: 1) che il lavoratore interessato sottoscriva una conciliazione, nelle sedi di conciliazione o avanti le commissioni di certificazione, con riferimento a tutte le possibili pretese riguardanti la qualificazione del pregresso rapporto di lavoro; 2) il datore di lavoro non receda dal rapporto di lavoro nei 12 mesi successivi all’assunzione con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, salvi i casi di recesso per giusta causa o giustificato motivo soggettivo.  I datori di lavoro che procedano alla stabilizzazione beneficeranno dell’estinzione degli illeciti amministrativi, contributivi e fiscali connessi all’eventuale erronea qualificazione del rapporto di lavoro. 

IL CONTRATTO DI LAVORO A TEMPO PARZIALE
Nella nuova disciplina del tempo parziale sono state eliminate le definizioni che caratterizzavano le diverse modalità con cui il rapporto di lavoro  a tempo parziale si poteva svolgere e, precisamente, la modalità “orizzontale”, “verticale” e “misto”.Confermata la forma scritta per la  stipula del contratto valevole ai soli fini  della prova; il contratto   deve contenere la puntuale indicazione della durata della prestazione lavorativa e la collocazione temporale della stessa, con riferimento al giorno, alla settimana, al mese e all’anno. La prestazione lavorativa può avvenire anche su turni programmati.La nuova disciplina non prevede più l’obbligo per il datore di lavoro di informare le R.S.A. con cadenza annuale sull’andamento delle assunzioni a tempo parziale, la relativa tipologia e il ricorso al lavoro supplementare.

Lavoro supplementare: in assenza di disciplina da parte della contrattazione collettiva, il datore di lavoro può richiedere al lavoratore lo svolgimento di ore supplementari, entro i limiti del normale orario di lavoro, rispetto all’orario concordato, in misura non superiore al 25% delle ore di lavoro settimanali concordate.Diversamente da quanto previsto dalla disciplina precedentemente in vigore (D.Lgs. 61/2001),  non è più richiesto il consenso del lavoratore all’effettuazione di ore supplementari. Il rifiuto del lavoratore allo svolgimento di ore supplementari è possibile ove giustificato da comprovate esigenze lavorative, di salute, familiari o di formazione professionale. Il lavoro supplementare è retribuito con una maggiorazione del 15% della retribuzione oraria globale di fatto. La nuova disciplina consente, quindi, il ricorso al lavoro supplementare anche in assenza di previsioni da parte della contrattazione collettiva, in questo caso la legge prevede solo la soglia massima e il pagamento della maggiorazione. Nel rapporto di lavoro a tempo parziale è consentito lo svolgimento di prestazioni di lavoro straordinario.

Clausole elastiche: nella disciplina previgente era prevista  la possibilità di pattuire clausole elastiche e/o flessibili solo se previste dalla contrattazione collettiva che doveva stabilire le condizioni e le modalità con cui il datore di lavoro poteva modificare o incrementare l’orario di lavoro e il limite massimo. La nuova normativa oltre all’ipotesi della previsione di clausole elastiche da parte della contrattazione collettiva, ha stabilito che ove non disciplinate dal contratto collettivo, le clausole elastiche possono essere pattuite anche dalle parti, mediante un accordo da stipularsi davanti alle commissioni di certificazione con possibilità del lavoratore di farsi assistere. Una volta dato il suo consenso alle clausole elastiche il lavoratore non le può revocare se non in casi ridotti: se lavoratore  studente; se affetto da patologie oncologiche o con disabilità grave. L’eventuale applicazione delle clausole elastiche senza il consenso del lavoratore o al di fuori dei limiti legali o contrattuali comporta il diritto ad un risarcimento del danno.

Trattamento del lavoratore a tempo parziale: il lavoratore non deve ricevere un trattamento meno favorevole rispetto al lavoratore a tempo pieno di pari inquadramento. Il trattamento economico e normativo è riproporzionato in base alla prestazione lavorativa.I contratti collettivi possono modulare la durata del periodo di prova, del preavviso e del periodo di conservazione del posto per malattia e infortunio in relazione all’articolazione dell’orario. In luogo del congedo parentale il lavoratore può chiedere, per una sola volta, la trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale in misura  non superiore al 50% dell’orario. Il datore di lavoro deve dar corso alla trasformazione entro 15 gg. dalla richiesta. Il rifiuto del lavoratore di concordare variazioni dell’orario di lavoro a tempo parziale non costituisce giustificato motivo di licenziamento.

IL LAVORO INTERMITTENTE
Il decreto legislativo sostituisce integralmente la fonte normativa del lavoro intermittente la cui disciplina resta sostanzialmente invariata. Il lavoro intermittente è il contratto che il datore di lavoro può utilizzare, anche a tempo determinato, per lo svolgimento di prestazioni discontinue o intermittenti secondo le esigenze individuate dalla contrattazione collettiva; in assenza di contrattazione l’individuazione dei casi per il possibile utilizzo del lavoro intermittente è rimessa ad un decreto ministeriale. Il contratto di lavoro intermittente può, in ogni caso, essere stipulato con soggetti di età superiore a 55 anni o inferiore a 24 e per un periodo non superiore a 400 giornate di effettivo lavoro nell’arco di tre anni solari con il medesimo datore di lavoro. Da quest’ultimo limite sono esclusi i settori del turismo, dei pubblici esercizi e dello spettacolo. Nel caso in cui il lavoratore abbia garantito la disponibilità a rispondere alle chiamate ha diritto all’indennità di disponibilità la cui misura è determinata dai contratti collettivi. Il rifiuto ingiustificato di rispondere alla chiamata può costituire motivo di licenziamento e comportare la restituzione della quota di indennità di disponibilità riferita al periodo successivo al rifiuto.     

CONTRATTO A TERMINE
Anche per il contratto a termine la disciplina contenuta nel D.Lgs. 81/2015 sostituisce interamente la disciplina del D.Lgs. 368/01, salvo la disciplina relativa al trasporto aereo, i servizi aeroportuali e le poste che sarà abrogata dall’1.1.2017. Le novità più significative introdotte dal decreto legislativo 81/2015 riguardano la soglia del 20% e il termine di 36 mesi che rendono ancora più flessibile il ricorso al contratto a termine. Nel ribadire  la durata massima di 36 mesi, fatte salve le diverse disposizioni dei contratti collettivi,  dei rapporti a tempo determinato intercorsi tra lo stesso datore e prestatore di lavoro la nuova disciplina  fa riferimento non più allo svolgimento di  “mansioni equivalenti” bensì a “mansioni di pari livello e categoria legale”. Il riferimento al pari livello e categoria legale nell’individuazione del limite dei 36 mesi oltre il quale i rapporti si trasformano a tempo indeterminato, da un lato delimita con più chiarezza l’ambito entro il quale si può utilizzare lo stesso lavoratore a termine, dall’altro amplia tale  possibilità con l’utilizzo della categoria legale, in quanto ben possono coesistere mansioni impiegatizie e operaie all’interno del medesimo livello contrattuale. Il superamento del limite di 36 mesi comporta la trasformazione a tempo indeterminato del contratto dalla data del superamento del predetto limite. Un ulteriore contratto a tempo determinato fra gli stessi soggetti per la durata massima di 12 mesi può essere stipulato presso la DTL. Non è più prevista l’assistenza sindacale né la determinazione della durata da parte della contrattazione collettiva mediante avvisi comuni. Confermato il tetto di 5 proroghe del contratto a termine nell’arco di 36 mesi. Eliminata la condizione che le proroghe si riferiscano alla stessa attività lavorativa per la quale il contratto è stato stipulato. Con riguardo alla soglia del 20%, viene estesa la tipologia di contratti che possono apportare deroghe alla soglia legale. Infatti, attualmente questa facoltà è attribuita solo ai contratti collettivi nazionali di lavoro, invece il decreto contempla i contratti collettivi anche aziendali (sindacati comparativamente più rapp.vi , dalle rsa o dalle rsu). Questo può portare a risultati non controllabili e imprevedibili. Questa facoltà se non correttamente gestita dalle OO.SS. rischia di estendere a dismisura il ricorso ai contratti a termine. Il decreto ripropone la sanzione amm.va in caso di violazione del limite legale o contrattuale ma precisa che resta esclusa la trasformazione dei contratti interessati in contratti a tempo indeterminato.  Questa precisazione è grave in quanto bisogna ritenere, a questo punto, che il rispetto della soglia del 20%  non rappresenti più un requisito di legittimità del contratto a termine, ma un mero adempimento formale, la cui violazione determinerà solo un aumento del costo del lavoratore assunto a termine. Il decreto disciplina altresì i termini di impugnazione del contratto a termine abrogando la disposizione legislativa che regolamentava, in precedenza, detti termini che restano comunque fissati in 120 giorni dalla cessazione del singolo contratto per l’impugnazione stragiudiziale e in 180 giorni, successivi all’impugnazione, per il deposito dell’eventuale ricorso giudiziale.   

CONTRATTO DI SOMMINISTRAZIONE
E’ il contratto a tempo indeterminato o determinato, con il quale un’agenzia di somministrazione, a ciò autorizzata, mette a disposizione di un utilizzatore uno o più lavoratori suoi dipendenti i quali, per tutta la durata della missione, svolgono la propria attività nell’interesse e sotto la direzione e il controllo dell’utilizzatore. Con la nuova formulazione della norma, si procede alla definitiva liberalizzazione del contratto di somministrazione. Il ricorso alla fornitura di manodopera viene, infatti, svincolato dalla sussistenza di ragioni legittimanti sia per lo staff leasing che per la somm.ne a termine. Con il decreto si elimina l’elenco tassativo di causali che legittimavano la somministrazione  a tempo indeterminato (cd staff leasing). Per lo staff leasing si introduce una clausola legale la quale stabilisce  che il numero dei lavoratori somministrati a tempo indeterminato non possa eccedere il 20% del numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza presso l’utilizzatore al 1° gennaio dell’anno di stipula del contratto, salva diversa previsione dei contratti collettivi applicati dall’utilizzatore. Per la somm.ne a tempo determinato la norma rinvia alla contrattazione collettiva  l’ individuazione di eventuali limiti quantitativi. Per quanto riguarda il trattamento dei lavoratori somministrati,  l’attuale formulazione garantisce una maggiore tutela dei lavoratori rispetto alla formulazione precedente, facendosi ora riferimento a condizioni economiche e normative complessivamente non inferiori a quelle dei dipendenti di pari livello dell’utilizzatore. Confermata la nullità del contratto di somministrazione in mancanza della forma scritta.Viene disciplinato, altresì, anche il termine per l’impugnazione del contratto di somministrazione già fissato in  60 gg. dalla data di cessazione dell’attività presso l’utilizzatore. La norma precisa che in caso di accoglimento della domanda giudiziale il risarcimento del danno in favore del lavoratore è determinato in un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 e un massimo di 12 mensilità.   

LAVORO ACCESSORIO
Per lavoro accessorio s’intende l’attività lavorativa retribuita mediante buoni lavoro (voucher). Il decreto legislativo non fa più alcun riferimento all’occasionalità del lavoro accessorio che costituiva la finalità originaria dell’istituto e che la legge delega 183/2014 aveva previsto. Si è confermata, pertanto, la struttura delineata dai diversi interventi normativi che si sono succeduti nel tempo e che hanno portato ad una definizione del lavoro accessorio riferita solo ai limiti economici dei compensi a prescindere dalla tipologia dell’attività svolta. Il limite economico che il prestatore di lavoro accessorio può percepire è stato elevato da 5.000 a 7.000 Euro (netti) come compenso massimo su base annua. Nei confronti di committenti imprenditori o professionisti possono essere svolte attività a favore di ciascun singolo committente per compensi non superiori a 2.000 Euro. I percettori di prestazioni integrative del salario o di sostegno al reddito possono svolgere prestazioni di lavoro accessorio in tutti i settori produttivi, compresi gli enti locali, nel limite complessivo di 3.000 Euro l’anno. Il ricorso a prestazioni di lavoro accessorio è vietato nell’ambito di appalti di opere o servizi fatte salve specifiche ipotesi che saranno individuate con un decreto ministeriale.

ASSOCIAZIONE IN PARTECIPAZIONE
Il decreto legislativo stabilisce il superamento dell’associazione in partecipazione con apporto di lavoro . Viene così modificata la disciplina dell’art. 2549 c.c. Sono fatti salvi, fino alla cessazione, i contratti di associazione in partecipazione con apporto di lavoro in essere alla data di entrata in vigore del decreto.   

APPRENDISTATO
Ribadito che l’apprendistato è un contratto di lavoro a tempo indeterminato finalizzato alla formazione ed all’occupazione dei giovani, che si articola in tre tipologie. Viene espressamente sottolineata la funzione propria dell’apprendistato consistente nell’integrazione tra formazione e lavoro, al fine di agevolare la collocazione dei giovani nel mercato del lavoro. Modifiche sono state apportate al recesso datoriale. Si conferma la recedibilità ai sensi dell’art. 2118 c.c. ma il termine di preavviso decorrerà dal termine del periodo di apprendistato e non più dalla fine del periodo di formazione. Sotto il profilo retributivo, la disciplina prevista per l’apprendistato per la qualifica e il diploma professionale e l’apprendistato di alta formazione e ricerca, prevede un peggioramento delle condizioni in quanto per le ore di formazione svolte nell’istituzione formativa il datore di lavoro sarà esonerato da ogni obbligo retributivo, mentre per le ore di formazione a carico del datore di lavoro è riconosciuta al lavoratore una retribuzione pari al 10% di quella che gli sarebbe dovuta. Il decreto interviene anche sull’onere di stabilizzazione (già abrogato dalla legge 78/2014) reintrodotto solo nell’ipotesi in cui si intenda procedere all’assunzione di apprendisti con contratto di apprendistato professionalizzante.  

LA DISCIPLINA DELLE MANSIONI
Una profonda modifica viene introdotta dal decreto legislativo alla disciplina delle mansioni normata dall’art. 2103 del c.c.. Innanzitutto viene eliminato il concetto di mansione equivalente, nel rispetto del quale il datore di lavoro poteva modificare le mansioni. Il datore di lavoro, infatti,  poteva modificare le mansioni del lavoratore solamente assegnandogli mansioni superiori o equivalenti; in caso contrario si configurava un’illecita ipotesi di dequalificazione. La giurisprudenza intendeva l’equivalenza nel senso che le nuove mansioni dovessero richiedere conoscenza e professionalità omogenee rispetto a quelle già possedute per effetto dello svolgimento della mansione precedente. Con la riforma dell’art. 2103, il datore di lavoro potrà invece modificare le mansioni in maniera molto più libera. Infatti la riforma attribuisce al datore di lavoro il potere di assegnare al lavoratore mansioni non più equivalenti, ma semplicemente riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento. Ciò significa che potrà risultare possibile assegnare a un lavoratore che per anni ha svolto mansioni di tipo amministrativo, mansioni di tipo tecnico, ovvero caratterizzate da una professionalità completamente diversa rispetto a quella già posseduta per effetto dello svolgimento della mansione precedente, purchè appartenenti allo stesso livello e categoria legale. Ciò comporta che a un lavoratore inquadrato per esempio come impiegato, non potrà essere assegnata una mansione operaia, neppure se inquadrata al medesimo livello. La norma prevede poi che il mutamento di mansioni sia accompagnato, ove necessario, dall’assolvimento dell’obbligo formativo. Tuttavia la riforma precisa anche che il mancato adempimento dell’obbligo formativo non determina la nullità dell’atto di assegnazione delle nuove mansioni, previsione che sembrerebbe svilire la formazione. E’ da ritenere però che l’obbligo formativo, ove necessario, costituisca un diritto del lavoratore costituendo, comunque, un inadempimento del datore di lavoro ad un obbligo legale. La riforma introduce anche la possibilità di assegnare al lavoratore una mansione inferiore. A tal fine, è necessario che ricorra una modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore. Dovrà, pertanto, essere verificata l’effettività e la rilevanza della modifica degli assetti organizzativi aziendali nonché dell’incidenza di tale modifica sulla posizione del dipendente. In questo caso il lavoratore potrà essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiori, purchè rientranti nella medesima categoria legale. Ulteriori ipotesi di assegnazione di mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore, purchè sempre rientranti nella medesima categoria legale, possono essere previste dai contratti collettivi, anche aziendali, stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rapp.ve sul piano nazionale. Nella precedente formulazione l’art. 2103 vietava al datore di lavoro la possibilità di adibire il lavoratore a mansioni professionalmente inferiori rispetto alle ultime effettivamente svolte, sancendo la nullità di ogni patto contrario. Con la riforma il dipendente potrà essere adibito non solo a mansioni completamente diverse rispetto a quelle svolte in precedenza, ma anche a mansioni caratterizzate da una professionalità inferiore. In ogni caso il lavoratore dequalificato ha diritto alla conservazione del livello di inquadramento, nonché del trattamento retributivo, ovviamente fatta eccezione per gli elementi retributivi collegati a particolari modalità di svolgimento della precedente prestazione lavorativa. Questa salvaguardia incontra una deroga che consiste nella possibilità di ridurre la retribuzione o di modificare il livello e la categoria legale di inquadramento, nel caso in cui il demansionamento sia frutto di un accordo tra le parti raggiunto nelle sedi di certificazione o di conciliazione e giustificato dall’interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione, dall’acquisizione di una diversa professionalità o dal miglioramento delle sue condizioni di vita. Per quanto riguarda l’assegnazione a mansioni superiori, in assenza di un diverso termine fissato dalla contrattazione collettiva, il tempo di assegnazione delle mansioni superiori necessario perché l’assegnazione diventi definitiva, viene elevato a 6 mesi continuativi. Ciò comporta che un lavoratore potrebbe essere assegnato ripetutamente a mansioni superiori per periodi ciascuno inferiore a 6 mesi, senza mai ottenere la definitiva assegnazione alle mansioni superiori. In precedenza era prevista, invece,  la possibilità che la maturazione dei tre mesi avvenisse anche sommando singoli periodi di assegnazione a quella mansione. La giurisprudenza prevedeva, come unica condizione di rilevanza dei periodi frazionati, che l’assegnazione fosse continua e sistematica. Viene poi ampliata la possibilità di deroga da parte della contrattazione. Infatti il vecchio testo prevedeva la possibilità dei contratti di individuare il tempo necessario all’acquisizione definitiva del diritto di svolgere la mansione superiore ma comunque entro il termine massimo di 3 mesi: la contrattazione avrebbe solo potuto diminuire quel termine e non aumentarlo. La riforma stabilisce invece che il termine di 6 mesi è valido solo in assenza di una diversa previsione contrattuale che potrebbe anche essere superiore rispetto al limite legale. Una novità positiva introdotta dalla riforma sta nella possibilità per il lavoratore di rifiutarsi di essere definitivamente adibito alle mansioni superiori. Potrebbe ovviamente porsi il problema di accertare effettivamente quale sia la realtà volontà del lavoratore e che il suo rifiuto non sia invece coartato dal datore di lavoro. La riforma riguarda diritti considerati primari ridimensionandoli in modo significativo. Infatti per effetto della riforma è di gran lunga aumentata la possibilità di modificare le mansioni assegnate al lavoratore, rendendo lecite sostituzioni oggi qualificabili come illegittima dequalificazione, il tutto a scapito della dignità del lavoro con benefici esclusivamente per la libera e flessibile gestione dell’attività d’impresa.

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